Di Daniela Piesco Direttore Responsabile 

BENEVENTO — Quando una città ferma il suo respiro per un funerale, non commemora solo un uomo ma un’idea di comunità. È accaduto oggi a Benevento per Antonio Pietrantonio, sindaco negli anni Ottanta e figura intellettuale di spessore, scomparso a 85 anni. La folla silenziosa a Santa Maria della Pace non era semplice partecipazione: era il riconoscimento di un modello politico ormai raro.

Pietrantonio incarnava una categoria estinta: il politico come servizio disinteressato e progetto culturale. La sua esperienza da primo cittadino (dal 26 febbraio 1982 al 28 novembre 1992) coincise con gli anni del pentapartito, eppure la sua traiettoria sfugge alle categorie partitiche. “Fu sindaco prima di essere di un partito, radicato nella sussidiarietà prima che diventasse slogan”. La visita di Giovanni Paolo II nel 1989 non fu per lui mera occasione cerimoniale, ma tassello di un’idea precisa: le istituzioni come luogo di elevazione civile.

Don Pompilio Cristino, celebrando il rito, ha colto il nodo: “Amava questa città senza chiedere nulla”. Un tratto che oggi suona quasi rivoluzionario. L’attuale sindaco Mastella, con la fascia tricolore, ha promesso un’opera dedicata, ma il vero omaggio è nella folla: insegnanti, ex allievi, cittadini comuni. Testimoniano qualcosa di più prezioso dei monumenti: la persistenza di un’impronta etica. Pietrantonio dimostrò che si può governare senza proclami, trasformando il Centro La Pace da progetto a presidio sociale concreto.

Nell’era della politica-spettacolo, questa figura sobria diventa un manifesto involontario. La sua forza fu l’antitesi del personalismo: costruiva istituzioni, non consensi. Il ricordo unanime della sua “arte gentile” (definizione ricorrente tra i presenti) suona come un giudizio implicito sull’attuale crisi di stili. Mentre le campane accompagnavano la bara avvolta da un applauso composto, pareva chiudersi non solo una vita ma un capitolo di storia civica: quello in cui la politica osava essere pedagogia.

La commozione odierna nasce da una consapevolezza collettiva: Pietrantonio rappresentava il ponte tra due mondi. Fu intellettuale organico al territorio prima che Gramsci diventasse citazione abusata. La sua eredità è paradossale: più invisibile e più duratura delle opere pubbliche. Sta nella coerenza che trasforma il potere in servizio, nella capacità di ascolto che oggi chiameremmo “governance dal basso”. Benevento piange un uomo, ma celebra inconsapevolmente un antidoto allo svuotamento della politica. E in questo, il suo ultimo insegnamento.

Personalmente, credo che l’addio a Pietrantonio sia anche un’occasione per interrogarci su cosa oggi chiediamo davvero ai nostri amministratori. In un’epoca in cui la comunicazione immediata sovrasta i contenuti e in cui la politica si misura più sugli slogan che sui progetti, la sobrietà di Pietrantonio ci appare quasi aliena. Eppure, proprio questa “alterità” ne fa una figura modernissima, quasi premonitrice di un bisogno che oggi avvertiamo confusamente: il ritorno a un’etica pubblica che non tema di essere mite, che non cerchi il like ma la fiducia lenta e difficile dei cittadini.

Mi colpisce come il suo esempio ci ricordi che la vera leadership si fonda sul silenzio operoso, non sull’effimero clamore. E che la memoria collettiva di una città non si costruisce a colpi di post o di conferenze stampa, ma nel sussurro rispettoso di chi ti ricorda per ciò che hai dato, non per ciò che hai gridato. Se oggi Benevento lo piange con questo calore, è perché — in fondo — ci ricorda chi potremmo ancora essere.

 

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