L’illusione dell’eredità: Paola Cortellesi non è Monica Vitti
“L’arte non ripete, l’arte reinventa.”
— Pier Paolo Pasolini
Negli ultimi mesi si è fatta strada un’affermazione che, a forza di essere ripetuta, rischia di diventare verità accettata più per stanchezza che per lucidità: “Paola Cortellesi è l’erede di Monica Vitti.”
Una frase pronunciata con entusiasmo da giornalisti, critici e spettatori dopo il successo di C’è ancora domani, opera prima da regista dell’attrice romana, diventata rapidamente fenomeno di pubblico e di industria. Il film è stato definito necessario, educativo, coraggioso. Ed è vero: ha parlato a molti. Ha sollevato domande. Ha scosso coscienze. Ma da qui a evocare l’ombra gigantesca di Monica Vitti, il salto non è solo lungo: è sintomo di un sistema culturale pigro, che preferisce proiettare sul presente un’icona del passato piuttosto che affrontare la sfida del nuovo.
Perché Monica Vitti non era una formula da ripetere, era un’anomalia da accettare. E oggi, chi ha il coraggio di accettare le anomalie?
Monica Vitti: quando il volto raccontava l’assenza
Monica Vitti è stata, ed è ancora, uno degli enigmi più affascinanti del cinema italiano. Il suo volto, la sua voce roca, la sua presenza vibrante riuscivano a tenere insieme leggerezza e vertigine. Era una donna che sembrava sempre altrove, anche quando rideva. Una figura che bucava lo schermo non per riempirlo, ma per lasciare spazio al mistero.
Con Antonioni ha incarnato la solitudine e l’incomunicabilità come nessuna. Con Monicelli e Scola ha fatto ridere mentre raccontava l’amarezza della condizione femminile con anticipo su ogni discorso femminista. Vitti era fuori forma rispetto ai modelli dominanti: non era né la diva statuaria né la ragazza della porta accanto. Era una frattura. Una che sembrava sempre sull’orlo di un’altra versione di sé.
E soprattutto: non rassicurava mai. Vitti non “portava un messaggio”. Non serviva cause. Era una figura libera e indisciplinata, in grado di destabilizzare persino quando faceva commedia.
Paola Cortellesi: ordine, mestiere e consenso
Paola Cortellesi è un’artista capace, seria, completa. Ha attraversato con grazia varietà televisivo, teatro, comicità, cinema d’autore e popolare. Ha costruito una carriera senza sbavature. E C’è ancora domani è senza dubbio un’opera importante, soprattutto per il pubblico femminile, per il modo in cui denuncia il patriarcato con un linguaggio semplice, accessibile, intergenerazionale.
Ma è proprio qui che nasce la differenza sostanziale: Cortellesi non spiazza, spiega. Non turba, accompagna. Non apre interrogativi, li chiude. Il suo film è fatto per piacere, per essere accolto con applausi. Ed è stato infatti accolto con premi, cifre record al botteghino, e con l’investitura quasi religiosa di “erede”.
Ma non basta raccontare le donne per essere Vitti. Anzi, Vitti non “raccontava le donne”: Vitti era il racconto, in tutta la sua opacità, contraddizione, sfuggevolezza. Non stava mai dentro un’idea. Era una presenza che metteva in discussione anche chi la guardava.
Paola Cortellesi è brava. Ma non è ambigua. E il nostro tempo ha più bisogno di ambiguità che di conferme.
Un sistema che blinda il già noto e ignora il nuovo
La domanda da porsi non è “chi è l’erede di Vitti?”, ma: perché cerchiamo sempre un’erede e mai un’autentica novità? Perché continuiamo a riproporre, riciclare, ricondurre ogni figura femminile pubblica a modelli del passato? Non è una forma di controllo anche questa?
Mentre Paola Cortellesi occupa il centro della scena — meritatamente, certo — altre attrici, forse più visionarie, più rischiose, più “scomode”, faticano a trovare spazio. Non perché manchino, ma perché non si vuole rischiare.
Sara Serraiocco, ad esempio. Attrice di spessore, con un volto fuori dagli standard, uno sguardo in grado di tenere dentro l’infanzia e la tragedia. In Salvo, Brutti e cattivi, Lo spietato, e anche nelle sue esperienze internazionali, ha mostrato una capacità rara: non cerca di farsi amare, cerca di essere vera.
E con lei Linda Caridi, intensa, tagliente, in grado di sostenere personaggi stratificati e instabili. Michela De Rossi, piena di forza fisica e vulnerabilità drammatica. Aurora Giovinazzo, giovanissima ma con una sensibilità già adulta, mai artificiale. Queste sono voci nuove, corpi nuovi, immaginari diversi.
Eppure non vengono messe al centro. Il sistema produttivo continua a scegliere i nomi già noti, le facce già familiari. Non per mancanza di talento, ma per paura del rischio. E allora il problema non è Paola Cortellesi, ma tutto ciò che il suo successo finisce involontariamente a oscurare.
La scena che il cinema italiano si rifiuta di girare
Immaginiamo un film. Un regista giovane, sconosciuto, propone un’idea: raccontare una donna attraverso quattro attrici diverse. Non un biopic, non un’agiografia. Ma un ritratto a frammenti. Una donna che cambia volto con il passare del tempo, delle emozioni, delle scelte.
“La ragazza che osserva il mondo in silenzio sarà Sara Serraiocco.
La donna che ride per non crollare sarà Linda Caridi.
La madre che ama e si autodistrugge sarà Michela De Rossi.
La figura che fugge da ogni etichetta sarà Aurora Giovinazzo.
Nessuna protagonista fissa. Nessun volto centrale.
Solo l’idea che nessuna donna sia solo una.”
Ecco il film che manca. Il film che spaventa i produttori, disorienta il marketing, turba i distributori. Ma è proprio questo il cinema che oggi serve: un cinema che non chiude, ma apre. Che non educa, ma interroga. Che non replica, ma inventa.
Conclusione: smettiamo di cercare eredi, cominciamo a cercare coraggio
Chiamare Cortellesi “l’erede di Vitti” è un gesto affettuoso, ma culturalmente regressivo. È il modo in cui un paese invecchiato si rifiuta di guardare davvero in faccia il presente. È il riflesso di un cinema che ha paura della complessità. Ma Monica Vitti non vuole discepoli, vuole eretiche. Donne che non chiedano il permesso, che non vogliano essere “capite”, che osino essere sgradevoli, spigolose, inclassificabili.
Il problema non è Cortellesi. Il problema è che non facciamo spazio a chi potrebbe davvero cambiare lo sguardo.
Vogliamo onorare Monica Vitti? Allora smettiamo di evocarla come una santina da adorare e cominciamo a credere in chi oggi ci destabilizza. Le nuove Vitti esistono. Sono vive. Ma non fanno ridere nei talk show. E soprattutto: non rassicurano.
E questo, oggi, è il loro più grande atto rivoluzionario.
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