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Cultura e società

Una notte da dimenticare: i David di Donatello alla deriva
Una notte da dimenticare: i David di Donatello alla deriva

di Carlo di Stanislao

“Il più grande errore che si possa fare nella vita è temere continuamente di commetterne uno.” — Elbert Hubbard

La 70ª edizione dei David di Donatello si è rivelata un’occasione da dimenticare, un vero e proprio spettacolo di mediocrità che ha tradito le aspettative di un pubblico che avrebbe voluto celebrare il cinema italiano con la giusta dose di emozione, coraggio e qualità. Purtroppo, la serata è scivolata via tra noiosi monologhi, battute forzate e scelte discutibili che hanno reso il tutto una passerella del già visto. In un momento in cui il cinema italiano sembra cercare nuove direzioni, la cerimonia dei David ha invece rinunciato a rinnovarsi, rimanendo prigioniera dei suoi stessi luoghi comuni.

Mika e Elena Sofia Ricci, scelti per condurre la serata, si sono rivelati un abbinamento quanto mai inadeguato. Il cantante internazionale, con il suo atteggiamento da star pop, non è mai riuscito a entrare nel clima della serata, confondendo l’evento con una performance da show musicale. Le sue battute, spesso fuori luogo, e i suoi tentativi di ironia non hanno fatto altro che rivelare una carenza di sintonia con il contesto. Elena Sofia Ricci, pur essendo un’attrice di grande talento, è apparsa impacciata e a tratti ingessata. L’atmosfera che ne è derivata non ha mai raggiunto la giusta alchimia, dando l’impressione che la serata fosse stata montata frettolosamente senza un’idea chiara di come renderla coinvolgente. Invece di celebrare il cinema italiano, la conduzione ha trasmesso solo l’impressione di una messa in scena impersonale, priva di calore e di legame con il pubblico.

E poi c’era Riccardo Cocciante. Un momento che avrebbe potuto essere il fiore all’occhiello della serata si è trasformato in un pasticcio imbarazzante. L’artista, icona della musica italiana, ha dimenticato le parole delle sue stesse canzoni, riducendo un omaggio che avrebbe dovuto essere emozionante a un fallimento da karaoke. Il pubblico, già disilluso dalle dinamiche della cerimonia, ha reagito con un misto di incredulità e imbarazzo. Cocciante, al di là della sua carriera leggendaria, ha mostrato quanto il passare del tempo e l’inadeguatezza di un palco televisivo possano compromettere anche le più solide reputazioni.

Ma i veri protagonisti della serata sono stati, come al solito, i premiati, che hanno visto trionfare i soliti nomi, con premi spesso riservati ai più noti del settore, senza aprire veramente al nuovo cinema. La cerimonia ha premiato in gran parte opere già ampiamente riconosciute, come se il cinema italiano non avesse nulla di nuovo da offrire. I riflettori sono rimasti ancora una volta puntati sugli stessi nomi, con qualche sporadico riconoscimento ai “volti nuovi” che si sono visti in lontananza, ma senza che venisse veramente dato spazio a chi meriterebbe visibilità per il suo coraggio innovativo.

Un esempio lampante della conformità di questa edizione è stato il trionfo di Vermiglio di Maura Delpero, che ha portato a casa sette statuette, tra cui il miglior film e la migliore regia – primo caso nella storia dei David in cui una donna ha ottenuto il premio per la regia. Un film che, pur indubbiamente significativo per la sua narrazione antimilitarista e per la riflessione sulla Seconda Guerra Mondiale, ha di fatto ottenuto un riconoscimento che sembra quasi premiare la “correttezza” politica più che la qualità artistica pura. Delpero, pur avendo realizzato un’opera di valore, ha vinto in un’edizione che non ha saputo osare davvero, con premi che non hanno illuminato il cinema emergente, ma si sono concentrati su scelte sicure e a volte scontate.

La cerimonia è stata costellata anche di momenti di “riflessione sociale”, come quando Elio Germano ha ritirato il premio per Berlinguer. La grande ambizione, ricordando la dignità dovuta ai palestinesi, o quando Francesca Mannocchi ha ricevuto il suo premio per il documentario sull’Ucraina, un gesto apprezzabile, ma che ha in qualche modo distolto l’attenzione dalla celebrazione esclusiva del cinema, portando la discussione su temi politici ed estremamente divisivi. Certo, è importante affrontare temi attuali, ma a volte sembra che i David si stiano sempre più trasformando in un palcoscenico per dibattiti sociali, piuttosto che in un’occasione per celebrare la creatività cinematografica.

E non possiamo dimenticare il grande assente della serata: Parthenope di Paolo Sorrentino, un film che arrivava alla cerimonia con ben 15 candidature, ma che è uscito dalla serata a mani vuote. In un’edizione che ha visto premiarsi opere già ampiamente applaudite dalla critica, la clamorosa esclusione di Sorrentino (nonostante il suo indiscutibile valore artistico e la sua fama internazionale) ha sollevato non poche polemiche. Come mai un nome come il suo, che ormai è considerato parte della “cerchia magica” del cinema italiano, è stato ignorato dai David? Sembra quasi che, pur avendo contribuito a portare il cinema italiano sotto i riflettori mondiali, Sorrentino non faccia più parte del sistema che promuove se stesso e i suoi amici. È un cinema ormai chiuso su se stesso, che premia le proprie dinamiche interne, e che lascia fuori chi, forse, oserebbe sfidare questa autoreferenzialità.

In un mondo in cui il cinema si evolve continuamente, la cerimonia dei David sembra vivere in un’altra epoca. Non ci sono stati premi per chi ha tentato di uscire dai soliti schemi, per chi ha voluto raccontare storie diverse, per chi ha fatto scelte radicali e coraggiose, come Disco Boy di Giacomo Abbruzzese, che sarebbe stato un vincitore più che meritevole, sia come miglior film che come miglior regia. Un film audace, capace di mescolare linguaggi e stili, con una proposta innovativa che ha saputo mescolare la tensione narrativa a una dimensione visiva forte. Invece, la cerimonia si è limitata a premiare il già visto, senza premi reali per chi sta cercando di spingere il cinema italiano oltre i confini tradizionali.

E ancora una volta, una delle note più dolenti è stata la gestione dei premi tecnici. Il riconoscimento per il miglior suono, un settore troppo spesso ignorato o relegato in secondo piano, sarebbe stato perfettamente meritato per Alessandro Palmerini, che ha curato il suono di Berlinguer. La grande ambizione di Andrea Segre. Palmerini ha realizzato un lavoro tecnico che ha saputo immergere il pubblico nel profondo del racconto storico e politico del film, utilizzando il suono per amplificare la portata emotiva della narrazione. Il suo lavoro di post-produzione ha fatto emergere con forza la potenza della voce e delle immagini di Elio Germano, creando una simbiosi perfetta tra storia e sensibilità artistica. Ma come spesso accade in queste cerimonie, il riconoscimento per il suono è passato inosservato, nonostante l’incredibile valore tecnico e artistico di questa realizzazione.

Chi meritava davvero?

Miglior film: Disco Boy di Giacomo Abbruzzese – un’opera intensa, coraggiosa, che osa stilisticamente e tematicamente, ma che purtroppo non è riuscita a emergere nei premi principali.
Miglior regia: Stefano Savona per La lunga notte – una regia solida e appassionata, che ha saputo raccontare una storia vera con delicatezza e forza.
Miglior attore protagonista: Andrea Carpenzano in Una sterminata domenica – una performance vibrante e sincera che meritava maggiore riconoscimento.
Miglior attrice protagonista: Valeria Golino in L’arte della gioia – un’interpretazione profonda, capace di esplorare le sfumature più complesse di un personaggio tormentato.
Miglior sceneggiatura originale: Francesco Di Leva per Gli anni più belli – una scrittura che ha saputo mescolare emozioni e riflessioni sociali in modo brillante e autentico.
Miglior montaggio: Marco Spoletini per Il mio corpo – un montaggio che ha saputo intensificare la tensione visiva ed emotiva del film, rendendo ogni sequenza un’ulteriore scoperta.

Conclusione

In definitiva, la 70ª edizione dei David di Donatello ha confermato che il cinema italiano è prigioniero di una routine autoreferenziale che fatica a rinnovarsi. Nonostante alcune lodevoli eccezioni, come il trionfo di Maura Delpero con Vermiglio, la cerimonia è stata una ripetizione dei soliti premi a chi già aveva ricevuto riconoscimenti in passato, lasciando fuori molti dei film e dei talenti che avrebbero veramente meritato attenzione. La presenza di Mika e Elena Sofia Ricci alla conduzione, purtroppo, non è riuscita a ravvivare una serata che ha saputo solo riflettere le problematiche di un’industria sempre più lontana dalle vere esigenze artistiche e culturali del pubblico. Se il cinema italiano vuole essere davvero celebrato, deve rinnovarsi, osare e, soprattutto, abbandonare la pigrizia di un sistema che premia l’autoreferenzialità invece di puntare sul futuro.

 

pH Wikipedia

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Ambiente

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Da emergenza sanitaria a priorità legislativa. La Camera approva il primo testo normativo che riconosce l’obesità come patologia: un passo storico per la salute pubblica.

L’obesità non è più solo una questione di stili di vita o di responsabilità individuale: è, ora ufficialmente, una malattia. Con l’approvazione alla Camera della proposta di legge presentata dal deputato Roberto Pella, l’Italia diventa il primo Paese al mondo a sancire per via legislativa il riconoscimento dell’obesità come patologia cronica, tracciando una rotta innovativa nel panorama internazionale della sanità pubblica.

Il testo, passato con 155 voti favorevoli e nessun voto contrario, mira a intervenire in modo strutturale su una condizione che riguarda già quasi 6 milioni di italiani e che, se non arginata, rischia di travolgere il Servizio Sanitario Nazionale con costi sociali, clinici ed economici insostenibili. Secondo i dati Istat, l’11,8% della popolazione adulta italiana è obesa, con percentuali allarmanti anche tra i bambini: il 9,8% dei minori tra gli 8 e i 9 anni ne è già affetto, mentre quasi uno su cinque è in sovrappeso.

La nuova legge si pone obiettivi chiari: prevenzione, diagnosi precoce, cure più omogenee sul territorio e lotta allo stigma sociale. Le risorse stanziate ammontano a 4,2 milioni di euro nel primo triennio, con un incremento progressivo da 1,2 milioni nel 2025 a 1,7 milioni dal 2027. Un investimento che vuole tradursi in politiche di intervento precoce, sensibilizzazione nelle scuole, campagne informative e un migliore accesso a cure multidisciplinari.

«Con questa legge – ha dichiarato Roberto Pella in Aula – rendiamo giustizia a milioni di persone che convivono con l’obesità e con le sue complicanze, troppo spesso ignorate o sottovalutate. Non si tratta di una debolezza personale, ma di una vera e propria malattia cronica, con ricadute che vanno dal diabete all’ictus, dai tumori alle malattie cardiovascolari». Il World Obesity Atlas stima che il costo globale dell’obesità raggiungerà entro il 2035 la cifra monstre di 4,32 trilioni di dollari annui, segno che il tempo delle sottovalutazioni è finito.

Importante anche il sostegno del mondo scientifico e industriale. Alfredo Galletti, General Manager di Novo Nordisk Italia, ha definito l’approvazione della legge «un passo fondamentale» che «pone l’Italia in prima linea nella lotta contro una delle più gravi sfide di salute pubblica contemporanea». Galletti sottolinea la necessità di un «approccio olistico e integrato» che affronti l’obesità non solo a livello clinico, ma anche istituzionale e sociale.

L’obesità, infatti, non solo espone a oltre 200 condizioni mediche, ma è spesso accompagnata da stigma, discriminazione e isolamento, generando un impatto psicologico devastante. Riconoscerla come malattia significa anche scardinare pregiudizi radicati, garantendo un accesso più equo alle cure e tutelando la dignità dei pazienti.

Ora il testo approda al Senato per la seconda lettura, ma l’impegno politico e istituzionale appare già ben definito. Questa legge, come sottolineato da Pella, «non è un punto di arrivo, ma di partenza». E apre la strada a un modello di salute pubblica più consapevole, inclusivo e, soprattutto, giusto..

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