Terremoto e insulti.Unita’ solo a parole
Editoriale di Daniela Piesco direttore responsabile Una notte difficile per la popolazione napoletana . Nella zona dei campi flegrei si sono registrate oltre 150 scosse di terremoto, tra cui la…
La recensione del Direttore Daniela Piesco
Un viaggio tra le pieghe oscure e sanguinose del Risorgimento, dove la Storia si scontra con le storie dimenticate. Bianco Antonio, con rigore documentaristico e una prosa avvolgente, ci conduce in un triangolo di terra bruciata – tra Puglia, Molise e Campania – dove, dopo l’Unità d’Italia, si consumò una guerra civile troppo a lungo relegata ai margini della narrazione ufficiale. Questo non è un semplice saggio storico: è un’epopea tragica, un affresco di passioni, vendette e resistenza che sfida le semplificazioni di “vinti” e “vincitori”.
Attraverso boschi impervi e borghi arroccati, l’autore ricostruisce le gesta di figure leggendarie come Pilorusso e Michele Caruso, briganti-colonnelli che trasformarono le montagne in fortezze inespugnabili, guidando centinaia di uomini in rivolta contro l’incedere piemontese. Ma qui non ci sono eroi o demoni: ci sono contadini armati di schioppi e fame di giustizia, ex soldati borbonici, donne coraggiose e ufficiali del Regio Esercito intrappolati in una spirale di violenza.
Antonio Bianco non si limita a elencare battaglie: fa vibrare il lettore con il rombo degli spari a Pietrelcina, gli ulivi macchiati di sangue a Roseto Valfortore, il silenzio tombale di Castelvetere. Ogni pagina scardina il mito di un’unificazione pacifica, mostrandone il volto più feroce – rastrellamenti, fucilazioni sommarie, interi paesi decimati – senza però cedere alla retorica della “guerra al brigantaggio”.
Il vero protagonista è il territorio: quelle montagne selvagge che ancora oggi custodiscono cicatrici e segreti, scenario perfetto per una guerriglia senza quartiere. L’autore le percorre con lo sguardo dello storico e l’anima del narratore, restituendo voce a chi subì la Storia senza poterla scrivere.
Consigliato non solo agli appassionati di storia, ma a chi cerca verità scomode. Un libro necessario, che brucia nelle mani e costringe a chiedersi: cosa resta, oggi, di quelle ferite? Un monito a non dimenticare che ogni unificazione ha i suoi traditi, e che persino la libertà può avere un prezzo di sangue.
“La medicina è la scienza dell’incertezza e l’arte della probabilità.”
— William Osler
Un cambiamento silenzioso ma devastante ha investito la medicina moderna: da arte della cura è diventata tecnica della gestione, da scienza del vivere bene è scivolata nella mera amministrazione di protocolli.
Il medico, che un tempo era artigiano sapiente, compagno nella malattia, si è ridotto a un mero esecutore di ordini standardizzati.
Un burocrate della salute, prigioniero di linee guida, algoritmi terapeutici e interessi economici sempre più evidenti.
La salute non è più un valore umano fondamentale, ma un business da alimentare incessantemente.
Non si cura più per guarire: si cura per mantenere il paziente in uno stato di perpetuo bisogno.
La perfezione fisica, la salute totale, l’assenza di difetti non sono più viste come ideali etici o filosofici da perseguire, ma come obiettivi di mercato: ogni nuova terapia, ogni nuova tecnologia diagnostica, ogni nuovo protocollo diventa un’occasione per fatturare.
La malattia è redditizia; la salute stabile e duratura, al contrario, non lo è.
Questa deriva è visibile anche nella cultura popolare: cinema e serie tv hanno abbandonato ogni residuo di umanesimo medico.
Oggi il medico è il tecnico infallibile, il meccanico del corpo, il “problem solver” iper-specializzato.
In Dr. House il medico è cinico e distaccato, incapace di empatia;
in The Good Doctor il protagonista è un genio tecnico che legge il corpo come uno schema da correggere, senza reale dialogo umano;
in Grey’s Anatomy o New Amsterdam il paziente è solo pretesto narrativo, non centro del gesto medico.
Non si racconta più il pensiero medico, la lenta costruzione della relazione terapeutica, il dubbio, la paura condivisa, la fragilità dell’essere umano.
Si raccontano solo successi tecnologici, corse contro il tempo, soluzioni meccaniche a problemi complessi.
La medicina è ridotta a spettacolo tecnico.
Questa stessa mentalità acritica domina opere come “Il trionfo della medicina”, film che celebra la tecnologia sanitaria senza mai interrogarsi sul suo prezzo umano.
Non vi è traccia di riflessione epistemica, non vi è spazio per la domanda fondamentale:
“A cosa serve la medicina? Qual è la sua funzione autentica?”
Il film esalta la velocità delle innovazioni, la potenza delle macchine, la moltiplicazione dei protocolli, ma tace sulla riduzione dell’uomo a oggetto riparabile, sulla perdita di senso che accompagna la medicalizzazione illimitata della vita.
Nemmeno la tragedia planetaria del Covid-19 ha provocato un risveglio del pensiero medico.
La pandemia è stata gestita con logiche esclusivamente tecniche: curve epidemiologiche, tamponi, lockdown, vaccini — ma nessuna seria riflessione pubblica su cosa significhi davvero curare.
Nessuno ha posto la domanda su come il medico debba accompagnare l’uomo nella paura, nella solitudine, nella malattia, nella morte.
La medicina ha reagito da apparato tecnico, non da arte umana.
Non ha pensato.
Non ha dubitato.
Non si è interrogata.
Oggi la medicina ha tradito se stessa.
Non è più arte della cura, ma tecnica della gestione.
Non è più scienza dell’uomo, ma business del corpo.
Non è più ricerca di senso, ma esercizio cieco di potere tecnologico.
Il medico è diventato tecnico, il paziente consumatore, la malattia mercato.
In nome della precisione abbiamo sacrificato il dubbio.
In nome della velocità abbiamo sacrificato l’ascolto.
In nome dell’efficienza abbiamo sacrificato la compassione.
La pandemia ha mostrato il vuoto di questa medicina automatizzata: numeri, statistiche, protocolli — ma nessuna vera riflessione su cosa significhi vivere e morire da esseri umani.
Chiediamo una medicina che sappia pensare.
Una medicina che sappia ascoltare.
Una medicina che sappia dubitare.
Una medicina che torni ad essere umana.
Senza una riscoperta della sua anima, la medicina sarà condannata a essere solo un apparato tecnico, efficiente e disumano.
Ma il corpo non è una macchina.
L’uomo non è un oggetto.
Curare è un atto di pensiero, di ascolto e di amore.
Solo chi saprà riscoprire l’arte antica del curare potrà veramente, ancora una volta, salvare non solo vite, ma umanità.
(Poesia di Italo Nostromo)
Io medico perso nella tecnica
Senza cuore non ho né passione né cure
Cammino tra macchine fredde, numeri sterili,
Compilo cartelle, prescrivo, dimentico volti.Le mani che un tempo sapevano ascoltare
ora sono strumenti ciechi, dita metalliche.
Ho smarrito il respiro dei malati,
il tremore, la preghiera, la disperata attesa.Vesto il camice come corazza,
mi protegge dal dolore che non voglio più vedere.
Ma la mia anima geme nei corridoi vuoti,
cerca il senso che ho venduto al mercato della velocità.Io medico, io fantasma, io assente,
imploro il ritorno dell’antica arte:
un gesto che curi, una parola che guarisca,
una presenza che sappia ancora salvare.E i padri mi guardano disperati
poiché ho disperso il loro respiro.
Editoriale di Daniela Piesco direttore responsabile Una notte difficile per la popolazione napoletana . Nella zona dei campi flegrei si sono registrate oltre 150 scosse di terremoto, tra cui la…