Attualità e cronaca

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Scienza, cultura e cura al centro del XXX Congresso Nazionale
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Politica

Edilizia, Ingersoll (LucidCatalyst): “Affiancare nucleare a rinnovabili aiuta a ridurre emissioni”
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IL SANNITA WILLIAM VERDINO DELL’I.C. MOSCATI ALLA FINALE NAZIONALE DEI GIOCHI MATEMATICI
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Turisti della democrazia : quando il silenzio è più pericoloso del dissenso
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Edilizia, Cominelli (Uli Italia): “Carenza di grandi player può essere penalizzante”
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Cultura e società

Nel grembo dell’aquila industriale pulsa un sole d’artista
Nel grembo dell’aquila industriale pulsa un sole d’artista

di Daniela Piesco

C’è un respiro antico e insieme visionario nell’opera che Alfredo Verdile ha donato al progetto Artindustria. Non è un semplice logo, ma un’epifania grafica, un’immagine che trattiene in sé la tensione tra mondi che troppo a lungo sono stati separati: l’industria e l’arte, la produzione e l’ispirazione, il dovere e la bellezza. Nel segno tracciato dalla mano del Maestro, ogni linea diventa un verso, ogni colore un sentimento, ogni figura un archetipo.

Al centro dell’immagine, l’aquila stilizzata di Confindustria, simbolo dell’impresa moderna, si fa madre, rifugio e generatrice. Non più solo emblema di potere economico, ma ventre accogliente, grembo simbolico in cui si custodisce un nucleo creativo, un sole interiore: una sfera dorata, che non è solo forma ma messaggio. È la luce che vibra all’interno del meccanismo produttivo, è l’anima che scalda l’ingranaggio, è l’essenza irriducibile dell’umano.

E proprio lì, dove ci si aspetterebbe solo il freddo metallo della tecnica, Verdile colloca un dinosauro bianco, simbolo archetipico e surreale, creatura del mito e della memoria. Non è una provocazione, ma una carezza. Il dinosauro attraversa il tempo, sopravvive alle ere, come fa l’arte. È l’emozione che resiste alla catena di montaggio, la poesia che sopravvive all’acciaio. La sua postura è dinamica, pronta al passo: è un invito a camminare oltre il presente, a portare con sé la storia e trasformarla in futuro.

Sul fondo, le torri gialle della città si ergono come organi di una cattedrale industriale. Sono fabbriche, ma anche templi. Non luoghi di alienazione, ma di metamorfosi. Le pennellate viola, oblique e sensuali, attraversano lo spazio bianco con una leggerezza malinconica, quasi a suggerire che l’arte non è mai invasiva: è carezza, è eco, è voce che accompagna.

La scritta “Artindustria” si incurva, gioca con le simmetrie, accoglie una doppia tensione: quella verso il senso e quella verso il sentimento. E sotto, la formula “Emozioni & Valori” suggella la visione. Non è solo uno slogan: è una dichiarazione d’intenti, un manifesto culturale che ribalta la gerarchia tra estetica e utilità, tra efficienza e identità.

Verdile non ha disegnato un logo: ha scolpito un pensiero. Ha compiuto un atto poetico che diventa politico, una dichiarazione d’amore per il Sannio e per tutti i luoghi che scelgono di coniugare cultura e progresso. Con il suo tratto, ci ricorda che l’impresa può farsi arte e che l’arte può abitare le stanze della decisione. E soprattutto ci insegna che in ogni fabbrica può battere un cuore, se qualcuno ha il coraggio di vederlo.

Questo logo è già un’opera. Ma più ancora è un’idea: quella che il futuro non si costruisce con il solo calcolo, ma con la luce calda e imperfetta delle emozioni condivise.

“Breve storia del brigantaggio tra Puglia, Molise e Campania (1860-1864)” di Antonio Bianco
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Omaggio a Elio Pecora. L’uccello raro che ci insegna a sentire
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Aldo Cazzullo:  l’ultimo inchinio di un rivoluzionario, la chiesa dopo di lui
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Ambiente

La medicina senz’anima: tra protocolli ciechi, business della salute e abbandono del senso del curare
La medicina senz’anima: tra protocolli ciechi, business della salute e abbandono del senso del curare

“La medicina è la scienza dell’incertezza e l’arte della probabilità.”
— William Osler

Un cambiamento silenzioso ma devastante ha investito la medicina moderna: da arte della cura è diventata tecnica della gestione, da scienza del vivere bene è scivolata nella mera amministrazione di protocolli.
Il medico, che un tempo era artigiano sapiente, compagno nella malattia, si è ridotto a un mero esecutore di ordini standardizzati.
Un burocrate della salute, prigioniero di linee guida, algoritmi terapeutici e interessi economici sempre più evidenti.

La salute non è più un valore umano fondamentale, ma un business da alimentare incessantemente.
Non si cura più per guarire: si cura per mantenere il paziente in uno stato di perpetuo bisogno.
La perfezione fisica, la salute totale, l’assenza di difetti non sono più viste come ideali etici o filosofici da perseguire, ma come obiettivi di mercato: ogni nuova terapia, ogni nuova tecnologia diagnostica, ogni nuovo protocollo diventa un’occasione per fatturare.
La malattia è redditizia; la salute stabile e duratura, al contrario, non lo è.

L’immaginario collettivo e il medico ridotto a tecnico

Questa deriva è visibile anche nella cultura popolare: cinema e serie tv hanno abbandonato ogni residuo di umanesimo medico.
Oggi il medico è il tecnico infallibile, il meccanico del corpo, il “problem solver” iper-specializzato.

In Dr. House il medico è cinico e distaccato, incapace di empatia;
in The Good Doctor il protagonista è un genio tecnico che legge il corpo come uno schema da correggere, senza reale dialogo umano;
in Grey’s Anatomy o New Amsterdam il paziente è solo pretesto narrativo, non centro del gesto medico.

Non si racconta più il pensiero medico, la lenta costruzione della relazione terapeutica, il dubbio, la paura condivisa, la fragilità dell’essere umano.
Si raccontano solo successi tecnologicicorse contro il temposoluzioni meccaniche a problemi complessi.
La medicina è ridotta a spettacolo tecnico.

L’inganno del “Trionfo della medicina”

Questa stessa mentalità acritica domina opere come “Il trionfo della medicina”, film che celebra la tecnologia sanitaria senza mai interrogarsi sul suo prezzo umano.
Non vi è traccia di riflessione epistemica, non vi è spazio per la domanda fondamentale:

“A cosa serve la medicina? Qual è la sua funzione autentica?”

Il film esalta la velocità delle innovazioni, la potenza delle macchine, la moltiplicazione dei protocolli, ma tace sulla riduzione dell’uomo a oggetto riparabile, sulla perdita di senso che accompagna la medicalizzazione illimitata della vita.

La pandemia come occasione mancata

Nemmeno la tragedia planetaria del Covid-19 ha provocato un risveglio del pensiero medico.
La pandemia è stata gestita con logiche esclusivamente tecniche: curve epidemiologiche, tamponi, lockdown, vaccini — ma nessuna seria riflessione pubblica su cosa significhi davvero curare.

Nessuno ha posto la domanda su come il medico debba accompagnare l’uomo nella paura, nella solitudine, nella malattia, nella morte.
La medicina ha reagito da apparato tecnico, non da arte umana.

Non ha pensato.
Non ha dubitato.
Non si è interrogata.

Contro la medicina senz’anima

Oggi la medicina ha tradito se stessa.
Non è più arte della cura, ma tecnica della gestione.
Non è più scienza dell’uomo, ma business del corpo.
Non è più ricerca di senso, ma esercizio cieco di potere tecnologico.

Il medico è diventato tecnico, il paziente consumatore, la malattia mercato.

In nome della precisione abbiamo sacrificato il dubbio.
In nome della velocità abbiamo sacrificato l’ascolto.
In nome dell’efficienza abbiamo sacrificato la compassione.

La pandemia ha mostrato il vuoto di questa medicina automatizzata: numeri, statistiche, protocolli — ma nessuna vera riflessione su cosa significhi vivere e morire da esseri umani.

Chiediamo una medicina che sappia pensare.
Una medicina che sappia ascoltare.
Una medicina che sappia dubitare.
Una medicina che torni ad essere umana.

Conclusione

Senza una riscoperta della sua anima, la medicina sarà condannata a essere solo un apparato tecnico, efficiente e disumano.
Ma il corpo non è una macchina.
L’uomo non è un oggetto.

Curare è un atto di pensiero, di ascolto e di amore.
Solo chi saprà riscoprire l’arte antica del curare potrà veramente, ancora una volta, salvare non solo vite, ma umanità.

Il canto amaro del medico perduto

(Poesia di Italo Nostromo)

Io medico perso nella tecnica
Senza cuore non ho né passione né cure
Cammino tra macchine fredde, numeri sterili,
Compilo cartelle, prescrivo, dimentico volti.

Le mani che un tempo sapevano ascoltare
ora sono strumenti ciechi, dita metalliche.
Ho smarrito il respiro dei malati,
il tremore, la preghiera, la disperata attesa.

Vesto il camice come corazza,
mi protegge dal dolore che non voglio più vedere.
Ma la mia anima geme nei corridoi vuoti,
cerca il senso che ho venduto al mercato della velocità.

Io medico, io fantasma, io assente,
imploro il ritorno dell’antica arte:
un gesto che curi, una parola che guarisca,
una presenza che sappia ancora salvare.

E i padri mi guardano disperati
poiché ho disperso il loro respiro.

 

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