Mentre a Rimini va in scena la 14esima edizione degli Stati Generali della Green Economy, è lecito chiedersi: stiamo assistendo a una rivoluzione o all’ennesimo teatro dell’ipocrisia istituzionale?
Gli Stati Generali della Green Economy tornano puntualmente a Ecomondo con il loro carico di buone intenzioni, relazioni tecniche e panel internazionali. Quest’anno il focus è “La green economy europea nel nuovo contesto globale”. Titolo ambizioso per un continente che, numeri alla mano, sta clamorosamente fallendo i propri obiettivi ambientali.
I numeri che smentiscono la retorica
Parliamoci chiaro: solo il 15% degli habitat europei è in buono stato. Il 36% è in condizioni “cattive”. Delle specie europee, appena il 27% gode di uno stato di conservazione accettabile. E la velocità con cui aumentano le aree protette dovrebbe più che raddoppiare per centrare l’obiettivo del 30% entro il 2030. Traduzione: non ce la faremo.
Eppure, tra Rimini e Bruxelles, continuiamo a organizzare convegni, a stampare relazioni patinate, a invitare economisti di prestigio come Jeffrey Sachs per raccontarci che la transizione ecologica è “un’opportunità”. Ma quale opportunità? Per chi?
Il paradosso della crescita sostenibile
Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, ci ricorda che “una retromarcia nelle misure per la tutela del capitale naturale non conviene nemmeno dal punto di vista economico”. Perfetto. Peccato che nessuno abbia ancora spiegato come conciliare la crescita economica infinita con un pianeta dalle risorse finite. La green economy continua a vendere l’illusione che si possa consumare meglio senza consumare meno. Un ossimoro che fa comodo a tutti: alle imprese che devono mantenere i profitti, ai governi che devono garantire l’occupazione, ai cittadini che non vogliono rinunciare al proprio tenore di vita.
La Nature Restoration Law, approvata nel 2024, viene celebrata come una svolta epocale. Ma chi controllerà davvero la sua applicazione? Chi metterà i bastoni tra le ruote alle lobby dell’agricoltura intensiva, dell’urbanizzazione selvaggia, del modello estrattivista mascherato da sostenibilità?
Il greenwashing istituzionale
Guardiamo il programma dell’evento: panel con Commissione Europea, rappresentanti di Enel Green Power, Chiesi Farmaceutici, Ambienta. Le solite multinazionali che si autoproclamano paladine della sostenibilità mentre continuano a operare in un sistema economico strutturalmente insostenibile. Parliamo di aziende che fatturano miliardi grazie a un modello di business che, anche quando si tinge di verde, non mette mai in discussione il dogma della crescita.
Il consumo di suolo non si arresta. La connettività forestale diminuisce. Gli ecosistemi collassano. Ma noi organizziamo convegni dove economisti e manager si scambiano visioni strategiche sul “finanziamento della transizione”. Quale transizione? Quella che ci porta dritta verso il baratro, solo con pannelli solari sul tetto?
Le domande scomode che nessuno farà
A Rimini nessuno avrà il coraggio di porre le questioni davvero dirimenti: la decrescita è un’opzione? Siamo disposti a ridurre drasticamente i consumi? L’Europa è pronta a rinunciare al proprio privilegio economico globale in nome della giustizia climatica? Come possiamo parlare di green economy mentre continuiamo a importare materie prime da paesi dove i diritti umani sono una chimera?
Il Global Risks Report 2025 colloca la perdita di biodiversità al secondo posto tra i maggiori rischi globali. Secondo posto. Come se fosse una graduatoria sportiva e non l’annuncio di un collasso sistemico. Ma tant’è: preferiamo le classifiche agli interrogativi scomodi.
Il rischio della COP30: l’ennesima occasione perduta
In chiusura dell’evento si parlerà di “aspettative e prospettive per la COP30″. Eccoci di nuovo: l’ennesima conferenza internazionale dove i potenti della Terra si riuniranno per firmare accordi che poi nessuno rispetterà davvero. Mentre la temperatura globale continua a salire, noi continuiamo a credere che le soluzioni arriveranno dalla stessa classe dirigente che ha creato il problema.
La green economy, così come viene raccontata in questi consessi istituzionali, è diventata l’alibi perfetto per non cambiare nulla di sostanziale. Un gigantesco esercizio di autoassoluzione collettiva dove tutti si dichiarano responsabili ma nessuno è colpevole. Dove si celebra l'”economia circolare” senza mai mettere in discussione la linearità feroce del nostro modello di sviluppo.
Forse è ora di smettere di organizzare Stati Generali e iniziare a fare i conti con la realtà: la vera transizione ecologica non sarà verde, comoda e compatibile con il business as usual. Sarà radicale, dolorosa e rivoluzionaria. O non sarà affatto.
Ma questo, ovviamente, non lo sentiremo dire a Ecomondo.
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