di Carlo di Stanislao

“La storia di ogni società esistita finora è storia di lotte di classi.” — Karl Marx

Karl Marx, con la lucidità tagliente che lo ha reso uno dei pensatori più influenti (e più contestati) della modernità, ha scritto da qualche parte che la rivoluzione sociale non è fatta dagli uomini, ma dalle cose. È un’affermazione che si potrebbe liquidare come paradossale, se non fosse che contiene un’intuizione scomoda e potentissima: il vero motore del cambiamento, nel suo schema, non è la volontà individuale o la coscienza collettiva, ma i rapporti materiali di produzione – ossia la disposizione concreta delle cose nel mondo.

Questa idea, centrale nel materialismo storico, ha avuto fortune alterne. Per alcuni è una rivelazione strutturale: la storia si muove con l’evoluzione dei mezzi di produzione, delle tecnologie, delle risorse, dei capitali. Per altri, è una visione mutilante dell’umano, che riduce l’azione politica a una conseguenza automatica delle condizioni materiali. E infatti, già alcuni marxisti più critici e meno dogmatici hanno proposto una correzione: le cose sono maneggiate dagli uomini. Dunque sono gli uomini, e in particolare quegli uomini che possiedono e controllano le cose, a fare davvero la rivoluzione.

È una sottigliezza che cambia tutto. Se sono le cose a fare la storia, allora il nostro ruolo si riduce a quello di comparse in un meccanismo impersonale. Ma se sono gli uomini – e soprattutto gli uomini armati delle cose – a guidare il processo, allora la politica, la scelta, la responsabilità tornano al centro. In questa oscillazione tra necessità e libertà, tra determinismo e azione, si gioca una delle questioni più profonde della modernità.

Ed è proprio su questa faglia che si inserisce la voce poetica di Pier Paolo Pasolini, nella sua opera Le ceneri di Gramsci. In quei versi tesi e dolenti, Pasolini mette in scena un dramma interiore che è anche il dramma dell’intellettuale del Novecento: come conciliare l’eredità borghese con la tensione rivoluzionaria? Come abitare il confine tra l’estetica e la politica, tra il desiderio personale e il dovere collettivo?

Gramsci, sepolto tra le erbacce del cimitero acattolico, diventa una figura sacra e muta, quasi un padre silenzioso a cui chiedere perdono. Ma la colpa non è una colpa chiara: è la consapevolezza di non poter essere, fino in fondo, ciò che si vorrebbe. Pasolini sa di non appartenere davvero al popolo per cui vorrebbe scrivere, e sa anche che la poesia – il suo strumento più autentico – non basta a cambiare la realtà. Il suo è un lutto che non si chiude: la politica non riesce a redimere l’arte, e l’arte non riesce a giustificare l’inazione.

Eppure, proprio in questa tensione si genera qualcosa di fecondo. La poesia pasoliniana non è una risposta, ma una domanda incarnata. Una meditazione tragica sul tempo, sulla morte, sulla speranza. Le “ceneri” di Gramsci sono il simbolo di un’eredità che brucia ancora, che non si spegne, ma che nessuno sembra più in grado di raccogliere davvero.

Qui si inserisce una metafora sorprendente: quella del cane che ha perso di vista il proprio padrone. Lo segue con l’olfatto fino a un bivio. Tre sentieri si aprono davanti a lui. Il cane annusa la prima via, poi la seconda. Alla terza, però, non si ferma nemmeno ad annusare: parte deciso, corre. Perché? Cosa ha capito? Possiamo parlare di ragionamento, o è puro istinto?

Questo piccolo racconto, apparentemente banale, dischiude un interrogativo gigantesco. Che cos’è l’intelligenza? E soprattutto: qual è il confine tra la nostra razionalità e quella, diversa, silenziosa, degli animali? Il cane, che agisce senza esitazione, possiede forse una forma di conoscenza più adatta alla vita concreta di quanto non sia la nostra logica, spesso così lontana dall’esperienza. Il fatto che l’uomo si ostini a negare alle bestie il potere del pensiero – per non vedere sminuita la propria presunta supremazia – dice molto più su di noi che su loro.

Nel cane che sceglie la strada giusta senza più annusare c’è qualcosa di profondamente umano, e al tempo stesso di profondamente altro: una saggezza intuitiva, un legame con il mondo che noi, nella nostra modernità artificiale, abbiamo forse spezzato.

Oggi la nostra civiltà sembra trovarsi in una situazione analoga. Ha perso la direzione. Il bivio è davanti a noi, anzi: i bivi si moltiplicano, e ci confondono. Ma l’olfatto ci manca. Non riusciamo più a decidere, perché abbiamo perso i riferimenti. E soprattutto, abbiamo perso la connessione con ciò che ci orientava: la fede, il sacro, il legame con i morti, la memoria collettiva, il senso del futuro.

Una civiltà che non costruisce più templi, che non erige tombe, che non custodisce i propri miti, è una civiltà che ha interrotto il filo con la propria origine. Non si tratta di nostalgia per il passato, ma di una diagnosi: se non sappiamo più sacralizzare, allora non sappiamo più immaginare. E senza immaginazione, non c’è futuro.

In questo senso, la storia non è mai davvero passata. Gli eventi accaduti tornano, come fantasmi, ogni volta che il calendario ripropone una data. Un secolo dopo, un anniversario riaccende un fuoco. Non è solo memoria: è incarnazione. Ogni società è un organismo complesso che convive con il proprio passato come con un organo interno. La storia non è mai solo “ciò che è stato”, ma ciò che ritorna, sotto altre forme, ogni volta che perdiamo il contatto con il nostro presente.

Resta allora la domanda: da cosa – o da chi – verrà la prossima rivoluzione? Dalle cose, come diceva Marx? Dagli uomini, come invocava Pasolini, seppur con dolore e ambiguità? O forse da una nuova, inedita alleanza tra i due?

Forse la verità sta a metà. Forse serve una nuova sintesi tra l’istinto e la ragione, tra la materia e lo spirito, tra il fiuto e il pensiero. Serve una cultura che non rinunci né alla tecnica né al sacro, ma che le intrecci in una visione nuova. Una civiltà capace di fare domande, senza avere fretta di risposte. Di scegliere la via giusta, non perché è la più semplice, ma perché è quella che porta lontano.

In fondo, come il cane al bivio, anche noi siamo chiamati a un gesto di intuizione. A un salto nel buio. A un atto di fiducia. Nelle cose. Negli uomini. Nella storia.

 

pH Pixabay senza royalty

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