“La pace non è l’assenza di conflitto, ma la capacità di gestirlo.”
— Baruch Spinoza
“Nel bel mezzo della difficoltà risiede l’opportunità.”
— Albert Einstein
Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2025, gli Stati Uniti hanno lanciato un attacco militare aereo contro tre siti nucleari strategici in Iran: Fordow, Natanz e Isfahan. I bombardamenti, condotti con bombardieri stealth B-2 Spirit e missili a lungo raggio, hanno distrutto strutture chiave del programma nucleare iraniano, secondo quanto riferito dal Pentagono. Si tratta dell’azione militare più aggressiva compiuta da Washington contro Teheran negli ultimi decenni, e il primo attacco diretto a infrastrutture nucleari iraniane dal 2009.
Donald Trump ha rivendicato con orgoglio l’operazione, definendola “un atto di necessaria prevenzione” e affermando che “l’Iran non avrà mai la bomba nucleare finché io sarò al comando”. Il giorno successivo, in un discorso alla Casa Bianca, Trump ha lanciato un messaggio chiaro e divisivo: “Abbiamo mostrato al mondo che la determinazione americana è viva. Ora spetta all’Iran scegliere: pace o tragedia”. Parole pesanti, che scuotono gli equilibri regionali e internazionali, aprendo scenari preoccupanti.
Il significato dell’attacco
L’attacco del 21 giugno non è solo un’azione militare: è un messaggio geopolitico diretto all’Iran, ma anche a Cina, Russia, Israele e alle monarchie del Golfo. Viene interpretato come una dimostrazione di forza, una risposta alla ripresa sospetta dell’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran, che secondo le agenzie di intelligence occidentali aveva superato il 90% di purezza, la soglia considerata “militarmente significativa”.
Colpendo i siti nucleari, gli Stati Uniti hanno inteso spezzare sul nascere la capacità iraniana di arrivare alla costruzione di un ordigno atomico. Ma l’operazione porta con sé un altissimo rischio di escalation.
Conseguenze immediate: il Medio Oriente in tensione
L’attacco ha provocato indignazione in Iran, dove il governo ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale e ha convocato d’urgenza il Consiglio Supremo di Sicurezza. Manifestazioni antiamericane sono esplose in diverse città, e il leader supremo Ali Khamenei ha promesso “una risposta devastante”. Secondo fonti non ufficiali, i pasdaran starebbero preparando operazioni di rappresaglia contro interessi statunitensi e israeliani in Iraq, Siria e Libano.
Le milizie sciite filo-iraniane, come Hezbollah e gli Houthi, sono già state poste in stato di massima allerta. È concreto il rischio che vengano lanciati attacchi asimmetrici contro basi militari USA, petroliere nel Golfo Persico e infrastrutture civili israeliane. La strategia dell’Iran non sarà necessariamente quella di un confronto diretto: potrebbe preferire logorare gli Stati Uniti e i loro alleati con un conflitto a bassa intensità ma prolungato.
Il rischio di radicalizzazione e jihad globale
Uno degli effetti più preoccupanti dell’operazione è il possibile risveglio dell’estremismo islamico. Il bombardamento di siti iraniani, simbolo della sovranità e del prestigio scientifico e militare di Teheran, potrebbe diventare un catalizzatore per gruppi radicali sunniti e sciiti. Alcune cellule jihadiste, dallo Yemen al Sahel, potrebbero approfittarne per rilanciare la narrativa anti-occidentale e reclutare nuovi adepti.
La percezione di un attacco unilaterale da parte degli Stati Uniti rafforza la propaganda antiamericana, indebolisce i moderati e getta benzina sul fuoco in paesi già fragili come Iraq, Siria, Libano e persino Afghanistan. Le potenziali ritorsioni terroristiche in Europa e negli Stati Uniti stessi non sono da escludere.
Un clima da post-11 settembre
Così facendo, Trump ha generato un clima di tensione e pericolo diffuso che ricorda, per intensità e imprevedibilità, quello seguito agli attentati dell’11 settembre 2001. Una cortina di ansia globale si è abbattuta sulle cancellerie occidentali e sulle popolazioni del Medio Oriente, sospese tra il timore della guerra e il rischio imminente di attacchi terroristici. E paradossalmente, proprio colui che si è sempre scagliato contro l’estremismo islamico, oggi potrebbe finire per alimentarlo in modo incontrollabile.
Fosse viva oggi, probabilmente neanche Oriana Fallaci — che pure fu tra le voci più severe e lucide contro l’integralismo islamico — gli darebbe ragione. Avrebbe intuito che non si combatte il fanatismo con la brutalità, né si ottiene sicurezza accendendo nuove fiamme in una regione già dilaniata da decenni di guerre e vendette.
Reazioni nel mondo arabo: moderati in difficoltà
L’attacco ha messo in forte imbarazzo i paesi arabi moderati, in particolare Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania ed Egitto. Questi governi, da anni impegnati a contenere l’espansione iraniana ma anche desiderosi di evitare un conflitto aperto nella regione, temono adesso una spirale fuori controllo. Le popolazioni, in gran parte ostili all’asse Washington-Tel Aviv, potrebbero costringere i loro leader a prendere posizioni più radicali, minacciando la tenuta interna.
L’Arabia Saudita ha ufficialmente chiesto una riunione urgente della Lega Araba, mentre l’Emiro del Qatar ha espresso “profonda preoccupazione per un atto che potrebbe trascinare l’intera regione in un abisso di sangue e vendetta”.
Netanyahu ne esce rafforzato
In Israele, il governo guidato da Benjamin Netanyahu ha accolto con entusiasmo l’attacco. Il premier ha ringraziato Trump per “aver fatto ciò che era necessario per garantire la sicurezza dell’umanità” e ha colto l’occasione per rilanciare il messaggio secondo cui “Israele non permetterà mai che l’Iran si doti dell’arma atomica”. Netanyahu, politicamente in difficoltà negli ultimi mesi, ottiene così una boccata d’ossigeno. L’intervento americano legittima la sua politica di linea dura e gli consente di proporsi come il garante della sicurezza regionale.
Ma c’è anche un rischio: se Israele dovesse essere direttamente coinvolto in una ritorsione iraniana, potrebbe rispondere in modo ancor più violento, scatenando un conflitto su larga scala.
Gli scenari futuri: tra guerra e diplomazia
Il Medio Oriente si trova oggi su un filo sottile tra due scenari contrapposti. Da una parte, una possibile spirale di violenze, rappresaglie e interventi militari che potrebbe portare a una nuova guerra regionale, con effetti devastanti su mercati energetici, stabilità globale e migrazioni. Dall’altra, la remota possibilità che l’azione americana costringa l’Iran a sedersi a un tavolo negoziale, magari con la mediazione di attori terzi come l’Europa, la Turchia o persino la Cina.
Molto dipenderà da come reagirà Teheran nei prossimi giorni e settimane, e dalla capacità degli attori regionali di contenere l’escalation. Al momento, però, il clima è quello della guerra, e ogni appello alla diplomazia appare flebile.
Conclusione
Il bombardamento americano dei siti nucleari iraniani del 21 giugno 2025 rappresenta una svolta potenzialmente catastrofica per il Medio Oriente. L’impatto della dichiarazione di Trump il giorno successivo ha consolidato una narrazione di forza, ma anche di rottura con ogni possibile diplomazia. I rischi sono molteplici: radicalizzazione jihadista, isolamento dei paesi arabi moderati, rafforzamento dell’asse israelo-statunitense, e infine una lunga e lacerante stagione di conflitti regionali.
La storia, come spesso accade, ci dirà se questo è stato il primo passo verso la sicurezza o il preludio a una tragedia globale.
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