L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco 

Nella notte tra il 21 e il 22 giugno, il mondo ha assistito all’ingresso ufficiale degli Stati Uniti nel conflitto mediorientale innescato dall’offensiva israeliana contro l’Iran. Con un discorso solenne pronunciato alla Casa Bianca, Donald Trump ha annunciato con enfasi “il successo militare spettacolare” dei bombardieri americani che hanno colpito e – secondo la sua versione – distrutto i siti nucleari di Fordow, Natanz e Isfahan. Un attacco diretto al cuore dell’infrastruttura atomica iraniana, che sancisce il passaggio definitivo da una guerra ombra a un conflitto aperto tra superpotenze e potenze regionali.

Le parole di Trump, intrise di retorica bellicista e di un tono da vittoria hollywoodiana, fanno eco a un’escalation ormai fuori controllo. Ma ciò che colpisce ancor di più è la debolezza del dibattito europeo, e italiano in particolare, di fronte a uno scenario così drammatico. Nel bel mezzo di una crisi geopolitica che potrebbe incendiare il pianeta, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pensato bene di parlare apertamente di “cambio di regime” in Iran, accodandosi di fatto alla linea più aggressiva e destabilizzante di Tel Aviv.

Una dichiarazione che non solo rivela una visione miope e pericolosa della diplomazia, ma rappresenta un’offesa grave al principio di sovranità nazionale, cardine del diritto internazionale e sancito dalla Risoluzione ONU 2131 del 1965, che vieta ogni forma di interferenza negli affari interni degli Stati. A ricordarglielo, con brutale chiarezza, è stata la portavoce del Ministero degli Esteri russo Marija Zakharova, che ha invitato Meloni a “ripassare la risoluzione” votata anche dall’Italia. Una lezione di diritto internazionale che non avremmo mai voluto ricevere da Mosca, ma che risulta tristemente necessaria.

Quella della premier, però, non è una scivolata isolata, ma il riflesso di un’incompetenza strutturale che attraversa il governo. Basti pensare alle dichiarazioni inconsistenti e talvolta contraddittorie del ministro degli Esteri Antonio Tajani, incapace di assumere una posizione autonoma e autorevole in politica estera. O all’evanescente Guido Crosetto, titolare della Difesa, che continua a oscillare tra dichiarazioni atlantiste e improvvisi richiami alla moderazione, lasciando intendere che la linea italiana sia dettata più dai sondaggi che da una strategia coerente.

Ma qual è oggi la posizione ufficiale dell’Italia? Siamo, è bene ribadirlo, un Paese membro della NATO, ma non siamo legalmente vincolati ad alcuna partecipazione militare in questo specifico conflitto. L’articolo 5 del Trattato Atlantico prevede l’assistenza collettiva solo in caso di attacco armato contro uno Stato membro della NATO. Israele, per quanto strategico alleato, non fa parte dell’Alleanza Atlantica, e in questo scenario è stato esso stesso ad avviare le ostilità. Nulla, dunque, ci obbliga a scendere in guerra.

Eppure, l’assenza di un vincolo giuridico non significa che il rischio sia scongiurato. L’attuale clima politico, con forze parlamentari inclini a seguire ciecamente ogni mossa di Washington e Tel Aviv, potrebbe spingere l’Italia verso un coinvolgimento de facto, anche senza mandato Onu o copertura legale internazionale. Si tratterebbe di una guerra di aggressione, priva di giustificazione costituzionale, come già fu la tragica esperienza della seconda guerra del Golfo, quando il diritto fu piegato alla forza e agli interessi strategici.

Oggi, come allora, il pericolo è reale. L’Italia si trova sull’orlo di un abisso che non comprende. I nostri rappresentanti paiono incapaci di leggere le coordinate fondamentali del diritto internazionale, schiacciati tra le pressioni dei blocchi geopolitici e l’ansia di mostrarsi “alleati affidabili”. Ma alleati non significa sudditi, e dignità non significa passività.

Serve ora una presa di posizione netta, fondata sul diritto e sulla prudenza. L’Italia deve sottrarsi alla logica della guerra preventiva, rifiutare ogni ipotesi di intervento diretto, e tornare a farsi promotrice di una politica estera autonoma, rispettosa della legalità internazionale. In gioco non c’è solo la nostra credibilità, ma la pace stessa. E la pace, a differenza della guerra, non si annuncia in diretta TV: si costruisce con intelligenza, silenzio e coraggio.

 

 

pH Pixabay senza royalty

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