«Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente.»
— Fernando Pessoa
L’Iran appartiene ai poeti.
Henry de Montherlant, il grande scrittore francese, d’aristocratico e riottoso ingegno, preferiva i poeti persiani. In un cammeo autobiografico del 1937 – nel bel mezzo del suo capolavoro, il ciclo de Les Jeunes Filles –, alto esercizio di egotismo, ammette di preferire “i maestri dell’Iran” ai “rimari e ai rimatori europei”.
I grandi poeti di laggiù, eletti in sapienza lirica, “Hafez, Saadi, Rumi… Mi hanno svelato la via raffinata; mi hanno insegnato la riservatezza, il segreto, l’estasi (appropriata alla morte) che si ricava dal profilo di un corpo o di un viso, l’immersione nelle acque profonde della poesia, la lunga stupefazione nei meandri della bellezza”.
Il genio dell’Iran è nei suoi poeti. Nell’eros che trasuda dai loro versi, nella lotta spirituale. L’Iran è terra di profondità spirituali prima che nucleari. Ce lo ricorda una recente antologia, Poeti iraniani. Dal 1921 a oggi, edita da Mondadori.
Folgorato da Hafez – una sorta di Petrarca di Persia – Goethe imbastì il Divano occidentale-orientale, una delle vette liriche della poesia europea.
Gertrude Bell, archeologa e avventuriera, fu la più audace studiosa di Hafez. Ai Poems from the Divan of Hafiz dedicò il suo primo studio importante. Più che “Lawrence d’Arabia”, fu una protagonista della storia e della geografia dell’Iran. Rileggerla oggi è capire l’oggi.
L’Iran è per lo più i suoi poeti. Non è un’esagerazione. In questa pagina, che sovrappone alla geopolitica la geopoetica, preferiamo due letture laterali:
- La rilettura di Farid al-Din ‘Attar, sommo poeta mistico di Nishapur.
- Il gioco (diventato inseguimento e poi libro) che ci porta a Dylan Thomas in Iran, nel 1951, nel bel mezzo di un intrigo internazionale.
Dylan Thomas in Iran: ovvero il poeta tra i pozzi di petrolio
Nel gennaio del 1951, inebriato dall’esotismo e dal bisogno di denaro, Dylan Thomas accettò di partire per l’Iran. Il viaggio durò oltre un mese, dall’8 gennaio al 14 febbraio. Secondo alcuni studiosi, fu in Iran che abbozzò Do not go gentle into that good night.
Sponsorizzato dalla Anglo-Iranian Oil Company, il tour doveva generare materiale per un film sulla “beneficenza” petrolifera inglese. Una fotografia lo ritrae ad Abadan, giacca e cravatta, ignaro di essere al centro di una crisi diplomatica.
Nel 1951, il premier Mohammad Mossadeq revocò la concessione agli inglesi, nazionalizzando il petrolio. Ciò provocò la famigerata Operazione Ajax, l’intervento congiunto di CIA e MI6 per rovesciare Mossadeq nel 1953. Il petrolio iraniano passò sotto controllo anglo-americano; Enrico Mattei fu escluso dal banchetto.
Dylan Thomas non scrisse nulla di concreto in Iran. Fu disgustato dalla povertà (“bambini rannicchiati nell’insussistenza”), assalito dalla noia. L’unico documento del suo passaggio è un testo radiofonico, Persian Oil, trasmesso il 17 aprile 1951.
Il finale è apocalittico:
“Il petrolio è al primo posto. Il petrolio è tutto… Alle rovine di Persepoli tutto è vanità immemorabile… I ricchi sono ricchi. Il petrolio è oleoso. I poveri aspettano.”
Thomas S. Eliot gli inviò un assegno, Marguerite Caetani pubblicò su “Botteghe Oscure” la poesia abbozzata in Iran.
L’anno dopo usciranno i Collected Poems, l’ultimo libro di versi pubblicato in vita.
La corrispondenza segreta con Pearl Kazin
Il viaggio iraniano è raccontato nelle lettere a Pearl Kazin, tradotte in italiano da Fabrizia Sabbatini in La mia ferita è il mondo (Magog, 2024).
Pearl, factotum di Harper’s Bazaar, fu amante di Dylan. La relazione fu breve ma incandescente:
“Ogni istante penso a te. Ti sento, ti desidero, ti parlo in silenzio… Mia amata Pearl… Provvedo a prenotare una stanza d’albergo?”
Nel 1953, Pearl è tra le ultime persone a dare l’addio al poeta morente al St Vincent’s Hospital di New York.
Dylan trovò “nauseabonda” Abadan, assisa sul “ribollente blu di questo fottuto Golfo Persico”. Disprezzava i giacimenti, le vite operaie, e trovava nel canto degli sciacalli l’unica poesia autentica.
Amò Shiraz, patria di Hafez, dove “i leopardi delle nevi vagabondano” e “dervisci supplicano sotto il mio letto”.
Un giovane iraniano, Ebrahim Golestan, futuro regista e traduttore di Hemingway, gli parlò di Hafez. Dylan gli parlò di Bach:
“Il poeta è un semidio. Opera una nuova creazione, una seconda creazione… personale, intima, unica.”
Farid al-Din ‘Attar: il Simurg e l’annichilimento
Di Attar resta soprattutto il poema mistico Manṭiq aṭ-ṭàir (La conferenza degli uccelli), in cui i volatili partono alla ricerca del loro re, il Simurg. Superano valli, prove, desolazioni. Quando giungono alla fine:
essi stessi sono il Simurg, e il Simurg è ciascuno di loro.
Lo racconta Jorge Luis Borges nel suo L’accostamento ad Almotasim:
“Insaziabile ricerca di un’anima attraverso i delicati riflessi che essa ha lasciato nelle altre”.
Attar fu maestro di Rumi. Mistico prima che poeta, cercò l’annientamento del sé. Della sua opera resta un frammento, ma quel frammento ha “la violenza del cristallo”.
La poesia persiana – carnale, mistica, trasfigurante – è ciò che resta della Persia vera.
La terra del petrolio ha avuto in sorte, prima ancora, l’estasi.
E i poeti.
I suoi veri padroni.
Ecco l’aggiunta che inserisce un paragrafo conclusivo, collegando poeticamente e storicamente l’Iran dei poeti con l’Iran degli Ayatollah e dei Pasdaran, mantenendo il tono e lo stile dell’articolo:
Dall’Iran dei poeti all’Iran dei Pasdaran
Da allora, l’Iran ha cambiato volto.
Il regno lirico dei poeti, degli sciacalli notturni e dei mistici dervisci si è trasformato in un regime teocratico e militarizzato.
Nel 1979, la rivoluzione guidata da Ruhollah Khomeini ha abbattuto il trono millenario dello Shah, instaurando la Repubblica Islamica.
Il potere è passato ai Guardiani della Rivoluzione (Pasdaran), braccio armato dell’ideologia sciita, e al clero: una teocrazia che esercita il controllo totale sulla vita, sul pensiero, sulla parola.
I poeti esistono ancora, certo, ma spesso in esilio, silenziati, o murati vivi nel proprio dolore.
L’estasi è diventata dottrina. La poesia, sospetto. La bellezza, rischio.
Chi un tempo invocava Hafez o Rumi, oggi si ritrova sotto il velo dell’ortodossia o sotto il mirino della censura.
L’Iran è passato “dal profumo del gelsomino al clangore dell’acciaio”.
Eppure, nei cortili, nelle case, nei versi sussurrati a mezza voce, la poesia non è mai morta.
Nemmeno l’ayatollah l’ha potuta seppellire.
Nemmeno il Pasdaran l’ha potuta stanare.
I poeti sono ancora lì.
In attesa di un altro Simurg.
O di un’altra notte da non attraversare docilmente.