“La religione è la realtà nella sua forma più potente. Non si può separarla dalla politica, perché essa è la politica nella sua essenza.”
— Sayyid Ruhollah Khomeini
Nel cuore ideologico dell’Iran contemporaneo si aggira ancora l’ombra lunga di una visione che ha ridisegnato la mappa della modernità islamica: quella di Ruhollah Khomeini, ayatollah mistico e rivoluzionario, teorico di una dottrina che ha scosso le fondamenta del pensiero politico tanto islamico quanto occidentale. Nato nel 1902 in una Persia ancora feudale, Khomeini è stato educato nella tradizione più ortodossa dello sciismo duodecimano, ma ha saputo trasformare quella formazione teologica in una visione globale. Non è stato soltanto il capo di una rivolta contro lo Shah, ma il fondatore di una teologia del potere che ha conferito alla religione la più assoluta centralità nella struttura statuale. Il suo pensiero resta, oggi più che mai, la lente attraverso cui leggere non solo la Repubblica Islamica dell’Iran, ma anche il conflitto epocale tra l’Islam sciita e l’Occidente.
Khomeini ha formulato la sua dottrina più nota – la wilayat al-faqih, ovvero il governo del giurisperito islamico – durante gli anni dell’esilio a Najaf, in Iraq. In una serie di lezioni poi raccolte nell’opera Hukumat-e Islami (Il governo islamico), ha tracciato le coordinate di un’inedita teocrazia moderna. Secondo Khomeini, il vero ordinamento islamico non può affidarsi né a re né a parlamenti, né tantomeno a costituzioni laiche. In assenza dell’Imam Mahdi – la guida infallibile nascosta dal tempo in attesa della fine dei giorni – il potere deve essere esercitato dal faqih, il giurista esperto nella legge sacra, perché solo lui può garantire l’applicazione della volontà divina nella sfera terrena.
Questa concezione sovverte le categorie occidentali della sovranità. Nel mondo moderno, il potere viene dal basso, dalla legittimazione popolare; nel khomeinismo, viene dall’alto, da Dio, passando per l’intermediazione dei sapienti religiosi. La volontà popolare può essere accettata solo come espressione della volontà divina – un’adesione condizionata e sorvegliata. Questo principio non è solo teorico: è stato la colonna vertebrale della Repubblica Islamica fin dalla sua fondazione nel 1979, quando la figura del rahbar (la Guida Suprema) è stata istituzionalizzata sopra ogni altro potere dello Stato, compreso quello del presidente e del parlamento.
Il pensiero di Khomeini, tuttavia, non si esaurisce nella dottrina istituzionale. Esso è intriso di escatologia, di attesa messianica, di concezioni cosmiche della giustizia e della lotta. L’Imam occulto – figura centrale dello sciismo – non è solo un futuro ritorno salvifico: è una presenza silenziosa che giustifica e orienta ogni azione del potere religioso. In questa cornice teologica, la lotta contro l’oppressione diventa non un’opzione, ma un dovere. La jihad non è necessariamente armata, ma è sempre spirituale, morale e politica. È uno sforzo continuo per purificare il mondo dall’arroganza e dalla tirannia. Ed è in questo contesto che Israele assume, nel pensiero khomeinista, una funzione non solo politica ma apocalittica.
Israele non è visto semplicemente come uno Stato nemico o un rivale regionale. È il simbolo del male sistemico: creatura dell’Occidente coloniale, corpo estraneo nella terra islamica, manifestazione della modernità corrotta e separata dal sacro. Per Khomeini, “Israele è una pustola cancerosa nel corpo dell’Islam”. Questa retorica, lungi dall’essere una mera provocazione, è parte di una visione del mondo che contrappone la ummah (la comunità dei credenti) ai centri dell’egemonia secolare: Washington, Tel Aviv, Parigi, Londra. L’odio verso Israele non nasce solo dalla questione palestinese, ma da un’antropologia teologica che oppone l’islamico all’occidentale come categorie assolute, ontologiche.
In questo quadro, il conflitto attuale – che il 19 giugno 2026 ha vissuto una nuova e drammatica escalation – viene percepito non come un semplice scontro tra due potenze regionali, ma come una tappa del destino. I droni e i missili lanciati dall’Iran, le risposte militari israeliane, le rappresaglie incrociate su obiettivi civili e strategici, tutto rientra in una narrazione più vasta: quella della lotta finale tra il bene e il male. Ogni martire, ogni esplosione, ogni sacrificio viene reinterpretato alla luce di un ordine sacro. Non è una guerra per il territorio: è un’offerta cosmica, una forma di redenzione collettiva.
Ma mentre la teologia giustifica il sangue, la realtà umana ne denuncia il peso. L’Iran del 2026 non è più quello del fervore rivoluzionario. È una nazione giovane, dinamica, frammentata tra un’élite clericale conservatrice e una popolazione urbana e connessa, desiderosa di apertura e diritti. Le proteste femminili, i movimenti studenteschi, i blogger incarcerati, gli intellettuali in esilio: tutto questo racconta una frattura interna profonda. Il pensiero khomeinista, un tempo fonte di liberazione e riscatto, è percepito oggi da molti come una gabbia ideologica che soffoca il pluralismo e la libertà spirituale.
Nel frattempo, anche Israele affronta le sue contraddizioni. L’apparato militare è tra i più potenti al mondo, ma la sicurezza non ha portato alla pace. La convivenza resta una chimera, e l’alleanza con gli Stati Uniti, pur essendo un pilastro della sopravvivenza, ha alimentato l’isolamento diplomatico. Le sirene d’allarme che risuonano a Tel Aviv e Haifa, le famiglie chiuse nei rifugi, i soldati al confine nord: tutto questo è diventato parte della normalità israeliana. Ma a quale prezzo?
Il pensiero khomeinista, nella sua radicalità, ha cercato di offrire un’alternativa al modello occidentale di potere. Ha rifiutato il compromesso, ha reso la religione padrona della politica, ha elevato la resistenza a virtù metafisica. Ma oggi, di fronte a un Medio Oriente lacerato, a una gioventù che cerca futuro e non martirio, a una comunità internazionale stanca della retorica apocalittica, quella visione mostra i suoi limiti. È ancora viva, è ancora potente, ma rischia di trasformarsi in un’ideologia autoreferenziale, incapace di riformarsi.
Nel cielo della storia, il velo dell’Imam continua a fluttuare. È simbolo di attesa, di promessa, di mistero. Ma forse oggi, più che mai, ci si chiede se quel velo serva a rivelare la verità… o a coprire il volto del potere.
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