Parniya Abbasi, stella silente estinta troppo presto

“Un poeta è colui che vedendo quello che nessuno vede, ci dice quello che nessuno ha detto.”
– Paulo Coelho

Nel cuore dell’Iran, tra le ombre di una città in ansia e l’eco lontana di missili che squarciano la notte, si è spenta troppo presto una giovane voce che prometteva luce: Parniya Abbasi, poetessa iraniana di appena 23 anni, è morta in un bombardamento israeliano su Teheran il 17 giugno 2025. Una notizia che ha lasciato attoniti non solo gli amici e la sua famiglia, ma anche chi, in un paese provato da decenni di censura e conflitti, aveva intravisto in lei il germoglio raro di una poesia nuova, libera e intima.

Parniya era molto più di una ragazza appassionata di letteratura. Studiava lingue, amava l’italiano e l’inglese, sognava viaggi e concerti (sperava un giorno di vedere i Coldplay dal vivo), ma soprattutto scriveva. Le sue poesie, brevi e intense, circolavano tra piccoli giornali letterari, pagine social e gruppi culturali clandestini. Usava la parola come rifugio, come specchio, come resistenza.

Una delle sue poesie più citate in queste ore è “Silent Star”, una lirica profetica, dolente, scritta qualche mese prima della sua morte:

“In una migliaia di luoghi /
Io finisco /
Brucio /
Divento una stella silenziosa /
Che si dissolve in fumo nel tuo cielo.”

Parole che oggi suonano come una premonizione, o forse come una testimonianza dell’intuizione dei poeti, capaci di scrutare le fenditure della realtà prima che si spalanchino.

La morte di un poeta è sempre un lutto profondo. Ma quando un poeta muore giovane, prima che il mondo possa ascoltare davvero la sua voce, quel lutto diventa anche una privazione collettiva: mancheranno le sue domande, i suoi versi non ancora scritti, le immagini che avrebbe potuto donarci per illuminare l’oscurità. I poeti sono pochi. E chi scrive con sincerità, in un contesto come quello iraniano – dove ogni parola può costare libertà o vita – è ancora più raro.

La poesia femminile iraniana ha conosciuto negli ultimi decenni un risveglio tanto potente quanto osteggiato. Dalla leggendaria Forugh Farrokhzad, che già negli anni ’60 osava parlare del desiderio e della libertà, fino alle autrici contemporanee perseguitate o silenziate, come Mahvash Sabet (imprigionata per la sua fede e la sua scrittura) o Nafiseh Zamanzadeh (morta dopo essersi unita alle proteste del movimento “Donna, Vita, Libertà”), le poetesse iraniane hanno sempre pagato un prezzo altissimo per la propria arte.

Proprio in questi giorni, con tragica sincronia, è uscita anche un’opera che sembra volerle dare voce: l’antologia “Nel mio cuore nudo: Voci di poetesse iraniane contemporanee” pubblicata da Anima Mundi Edizioni, che raccoglie testi di autrici viventi in patria e in diaspora, molte delle quali sconosciute in Occidente. Un coro femminile che canta la condizione della donna, la repressione, la speranza, il corpo, l’amore e la resistenza. È un volume prezioso che accoglie anche testi inediti tradotti direttamente dal persiano, e che conferma quanto la poesia, in Iran, sia ancora oggi una forma di sopravvivenza e di lotta.

Parniya Abbasi non figura nell’antologia, perché la sua voce non ha fatto in tempo a raggiungerla. Ma sembra risuonare tra le righe, come un’eco dolceamara di ciò che avrebbe potuto essere. La sua assenza diventa così una presenza ancora più bruciante.

Ogni vita spezzata da una guerra è un oltraggio. Ma quella di un poeta è anche un’amputazione spirituale per tutti noi. I poeti sono coloro che ci insegnano a guardare. Quando uno di loro muore, perdiamo un pezzo della nostra capacità di capire il mondo. E quando la poesia viene uccisa, con essa muore anche un frammento di futuro.

In un paese dove scrivere è un atto di coraggio, Parniya aveva già scelto da che parte stare: quella della luce.

 

pH Pixabay senza royalty

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