Il veleno che ci divora e la rivoluzione silenziosa.
L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco
Quel carbone infernale che chiamano rabbia scricchiola, una brace ardente nelle ossa di una società che non riconosce più la propria pelle. Lo stringiamo con pugni serrati, convinti sia un’arma affilata, mentre la nostra stessa carne si carbonizza, l’odore acre e nauseabondo si alza, non è quello del nemico, ma il fumo denso del nostro stesso essere che brucia. Lo brandiamo contro fantasmi comodi: l’ombra del migrante, la caricatura del politico, l’eco vuota di una parola. Eppure, il dolore che ci serpeggia dentro come veleno, è solo nostro. Nostro. E continuiamo a serrarlo, perché siamo stati addestrati a farlo. Siamo Pavloviani inconsapevoli in un laboratorio globale, dove ogni battito del nostro cuore è un esperimento riuscito.
Ivan Pavlov, il gigante premiato nel 1904, non avrebbe mai immaginato l’abisso in cui la sua scoperta sarebbe precipitata. I suoi cani affamati, il campanello, il cibo… un riflesso condizionato, meccanico, inconsapevole. Ora, togliamo i cani. Togliamo la ciotola. Restiamo noi. E al posto del campanello, parole-trigger distillate con una precisione chirurgica che squarciano l’anima:
Immigrazione. Sicurezza. Tradizione. Palestina. Genere.
Ding. Ding. DING!
Non è più scienza. È ingegneria sociale, la propaganda più pura. Il metodo perfetto per muovere le masse senza un barlume di ragione, senza soluzioni, senza programmi. Solo suoni carichi di elettricità emotiva che ci scuotono fin nel profondo. E noi scattiamo. Sbaviamo. Ringhiamo. Condividiamo. Sputiamo veleno. Fantocci elettrificati che scambiano i fili d’ombra per le redini di una ribellione mai iniziata.
I social media sono il nostro laboratorio definitivo, gli algoritmi i nostri addestratori spietati. Osservano, studiano, catalogano ogni goccia della nostra bava di rabbia. Sanno che più bruciamo, più consumiamo. Ci nutrono con stimoli calibrati al millimetro: titoli-proiettili che trafiggono la mente, immagini tossiche che avvelenano lo sguardo, facce da detestare a comando che ci fanno ribollire il sangue. Non ci offrono contenuti, ci iniettano adrenalina. Perché la nostra reazione è il vero prodotto. La nostra indignazione è la valuta pregiata.
La politica ha smesso di persuadere, ora spara. Colpisce dritto alla pancia, all’istinto più primordiale. Ha compreso che un popolo condizionato non cerca verità, ma brama sangue. Non vuole pensare, vuole solo un nemico semplice. Un ding… e noi esplodiamo come ordigni prevedibili, un popolo che urla parole vuote – “libertà”, “rivolta”, “giustizia” – mentre danza, ipnotizzato, sul filo teso dai burattinai. Pavlov osservava la natura. Loro manipolano la natura umana.
Quel carbone che stringiamo con furia sacrale non annienta il bersaglio. Annienta noi. Sta divorando la nostra umanità, la capacità di discernere, la nostra autentica libertà. L’unica, vera ribellione possibile inizia con un gesto radicale: mollare la presa. Spegnere il rumore assordante che ci avvolge. Soffiare, con delicatezza, sulle ferite autoinflitte.
La prossima volta che la rabbia monta, viscerale e rovente, come un’onda distruttiva, fermati. Respira. In quella pausa artificiale, creata rompendo il riflesso condizionato, una domanda deve esplodere con ferocia lucida nel tuo animo:
Chi sta agitando il campanello? Chi trae profitto dalla mia bava?
Perché chi crede di essere libero mentre obbedisce a un suono… è lo schiavo perfetto. Un servo senza catene visibili che scambia la gabbia condizionata per un campo aperto di libertà.
La scelta è chiara: bruciare come torce umane per illuminare il palco dei manipolatori, o spezzare il meccanismo.
Quel carbone che stringiamo fino a sanguinare non è solo un’arma spuntata. È la metafora che il Buddha consegnò all’umanità, come un monito eterno: «Chi tiene tra le mani un tizzone acceso si brucia da solo». Noi siamo il fuoco e la vittima. Il carnefice e la carne che brucia.
Ma esiste una via d’uscita: il risveglio. Non urlare, non combattere, ma vedere. Vedere i fili che ci tirano, i campanelli digitali che suonano a ogni scroll, le mani invisibili che forgiano i nostri odi a colpi di pixel e parole veleno.Spegni lo schermo. Tappati le orecchie. Ferma il cuore che batte all’impazzata per un nemico inventato. E allora, nella calma improvvisa che ti avvolgerà, sentirai il suono più terribile: il crepitio del nostro stesso spirito che si consuma.
Lascia cadere il carbone. Lascialo spegnere nel silenzio assordante della consapevolezza. Ecco la vera ribellione: diventare padroni del proprio respiro, non schiavi del suono. Ecco l’unica illuminazione possibile in un mondo che ci vuole ciechi: ricordare che siamo esseri liberi, non robot addestrati a ringhiare.
Il campanello suona ancora, ma stavolta non c’è carne da mordere. Solo il vento che soffia tra le costole di chi ha imparato a non bruciare, di chi ha trovato la sua rivoluzione silenziosa.
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