“Il conformismo è il carceriere della libertà e il nemico della crescita.”
— John F. Kennedy
Vederli insieme è un’esperienza onirica, ma non nel senso bello: Benigni e Vespa è come vedere Pasolini che supporta Diletta Leotta. Una visione disturbante, un paradosso estetico e culturale che fa rimpiangere i tempi in cui le contraddizioni facevano male, e non audience. Pasolini brandiva lo scandalo per denunciare la decadenza; oggi, quello scandalo è diventato show del giovedì sera, con Roberto che recita Dante come se stesse presentando i finalisti di Ballando con le Stelle, mentre Vespa annuisce e lancia in grafica il plastico del Purgatorio.
Attorno a questa nuova alleanza tra sacro e salottiero, si snoda un’intera compagnia di giro del pensiero beneducato, una corte dei miracoli dove però nessuno è davvero miracoloso. A partire da Geppi Cucciari, ex comica graffiante, oggi moderatrice di battute neutre, abile nell’arte di non far ridere né riflettere troppo. La sua è una satira da ufficio stampa, che colpisce solo dove non duole e consola più che pungolare.
Luciana Littizzetto, invece, ha ormai assunto il ruolo di zia post-moderna del dissenso a bassa intensità: un tempo capace di folate anarchiche, oggi dispensatrice di sarcasmo sterilizzato, il cui massimo rischio è pronunciare “culo” davanti a Fazio, per poi assicurarsi che nessuno si sia sentito turbato. Un’ironia con il badge, pronta per ogni prima serata.
Poi c’è Roberto Saviano, il cui status di eterno perseguitato ha finito per oscurare la sostanza. L’autore che ci fece vedere Gomorra ora sembra vivere nella retrocopertina di sé stesso: più intento a ribadire il suo ruolo nella storia che a produrre qualcosa che ci sposti un millimetro. Le sue invettive sono diventate liturgie: tutte giuste, tutte vere, tutte già dette — con la stessa intensità con cui si legge un foglietto illustrativo.
A fianco a lui, Beppe Severgnini, l’intellettuale da export, raffinato, rotondo, precisissimo nel non dire mai nulla che possa turbare un lettore del Corriere. Il suo è un pensiero che non lascia segni: elegante, moderato, pettinato. Se fosse un dolce, sarebbe una meringa: croccante fuori, vuota dentro. La sua indignazione è vintage, il suo sarcasmo è in giacca e cravatta.
Ma la tavolata del consenso è lunga. C’è Concita De Gregorio, che scrive come se stesse sempre lasciando un messaggio vocale a sé stessa, pieno di riflessioni sussurrate e appelli alla comprensione universale. Poi Michele Serra, che da autore di Cuore è diventato autore del Cuoricino: ogni sua parola è ponderata, ripulita, smussata. Un tempo colpiva con la clava, oggi fa massaggi con la parola “equilibrio”.
E naturalmente Massimo Gramellini, paladino delle buone intenzioni e della retorica da comodino. Ogni suo pezzo è una carezza ideologica, una frase fatta ben fatta, un’idea che nessuno contesterà mai, perché nessuno l’ha davvero capita — nemmeno lui. È il pensiero per tutti: non scalda, ma nemmeno disturba. Perfetto per accompagnare la digestione del TG.
In mezzo a questi volti rassicuranti non poteva mancare la regina del talk levigato, Lilli Gruber. Otto e mezzo è il suo regno: lì si può dissentire, ma solo se lo si fa con tono monocorde, un blazer sobrio e una bibliografia di riferimento. Le sue interviste sembrano interrogazioni del Liceo Classico, dove l’obiettivo non è disturbare ma dimostrare di aver studiato. Ogni ospite è scelto per comporre una scenografia di equidistanza e compostezza: il dissenso, lì, è una coreografia. Un balletto in punta di argomentazione che finisce sempre con un lieve cenno del capo e il prossimo spot pubblicitario.
Ed ecco servita la grande tavolata del conformismo d’élite, dove l’opinione è un prodotto da scaffale, la satira è un meme scaduto e il giornalismo d’opinione una lunga riflessione da Club Med. Una parata di nomi altisonanti che si autocelebrano come paladini del pensiero critico, ma che in realtà operano nel più completo perimetro del già concesso, del già applaudito, del già detto.
Una cultura che non cerca più di capire o cambiare, ma solo di autoconfermarsi. Dove anche i più irregolari sono diventati perfettamente compatibili col potere, purché lo dicano con toni lievi e luci calde.
Benigni, Vespa, Cucciari, Littizzetto, Saviano, Severgnini, Gruber, Serra, Gramellini, De Gregorio… Tutti buoni per tenere buoni. E il pubblico? Applaude. Perché gli hanno insegnato che così si fa, tra una pubblicità e l’altra.
Nel nuovo varietà del pensiero levigato, la ribellione è scenografia, e la critica è intrattenimento.
E Pasolini, da qualche parte, ride. Ma è una risata amara.
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