Di Carlo di Stanislao

“Quando senti parlare di morale, stai certo che qualcuno sta facendo i suoi comodi.”
— Pier Paolo Pasolini

Luigi Sbarra sottosegretario al Sud. Messa così, sembra un normale giro di nomine. Ma dietro l’apparente routine amministrativa si nasconde una manovra raffinata – e per nulla innocente – che riscrive gli equilibri del potere sindacale e, di riflesso, quelli della politica nazionale. Giorgia Meloni ha mosso la pedina giusta al momento giusto. Altro che tecnico: è un colpo che porta la firma di chi, più che governare, mira a rifondare.

La Cisl – o meglio, ciò che resta del suo vecchio spirito autonomo – ha appena depositato un proprio ex segretario nei corridoi di Palazzo Chigi. E non in un angolo: direttamente dentro la stanza dei bottoni. Sbarra, da poco pensionato sindacale, entra come “indipendente”, un aggettivo che ormai suona come un vezzeggiativo ipocrita più che una qualifica reale. Con la scusa del Sud, porta in dote ben più di un fascicolo sulla scrivania: milioni di iscritti, radicamento profondo tra pensionati e dipendenti pubblici, e un discreto patrimonio di consenso centrista da redistribuire.

Meloni, con la pazienza del pescatore e il fiuto del mercante, ha compreso che oggi la partita non si vince né alzando la voce né promettendo rivoluzioni. Si vince con i numeri, con gli apparati, con gli alleati silenziosi. E così, mentre Cgil e Uil leccano le ferite dell’ultimo referendum fallito, la premier infila la spina dorsale della Cisl direttamente nella macchina governativa. Non con una forzatura, ma con quel misto di affetto pubblico e calcolo privato che ormai è il marchio di fabbrica della sua leadership.

Alla cerimonia d’addio di Sbarra, Meloni si era presentata con fiori, sorrisi e complimenti. Sembrava un semplice tributo, si è rivelata una prefigurazione. E così oggi l’uomo del “dialogo costruttivo” diventa funzionario del potere. Più che un premio, un investimento.

La triplice, nel frattempo, affonda. La mitologia unitaria dei sindacati è un ricordo d’archivio. Landini resta solo con il megafono, Bombardieri sembra il reduce di una battaglia persa prima ancora di essere combattuta, e la Cisl… beh, la Cisl ha cambiato lato del tavolo.

Il gioco è chiaro: Meloni non vuole solo governare, vuole inglobare. Non le interessa dividere il Paese, le interessa assorbirne le aree grigie, moderate, centriste, democristiane di ritorno. Con Sbarra, si prende una parte rilevante di quel vecchio ceto medio che non protesta ma vota, che non scende in piazza ma che ancora riempie le urne. Una mossa accorta, ma anche pericolosa.

Perché ogni conquista, per quanto astuta, apre una nuova faglia. Ora Meloni deve rispondere a un doppio rischio: da una parte, perdere il favore dei suoi elettori più “identitari”, quelli che mal digeriscono l’abbraccio con i sindacati; dall’altra, trovarsi a gestire un Sud che nessuno riesce mai davvero a “delegare” senza conseguenze. Se Sbarra funziona, il merito sarà di Meloni. Ma se inciampa – tra fondi PNRR in ritardo, infrastrutture zoppe e campanilismi mai sopiti – il conto politico lo pagherà lei. Magari al prossimo giro di urne.

C’è poi un altro aspetto, forse il più insidioso. Quando si comincia a scegliere i propri collaboratori tra i ranghi dei poteri intermedi, l’equilibrio si fa scivoloso. La tentazione di usare lo Stato come agenzia di collocamento di fidati referenti è forte. E l’Italia ha già visto cosa succede quando la politica si illude di aver “domato” i sindacati: quelli, prima o poi, tornano a presentare il conto. Con gli interessi.

La premier, però, sembra convinta della bontà della sua mossa. E, almeno per ora, non sbaglia. Ha annusato la debolezza altrui e ha agito con la risolutezza di chi sa che il potere vero non si urla: si distribuisce. Un pizzico per uno, purché resti chiaro chi tiene in mano la ciotola.

Insomma, Meloni ha fatto un’operazione da equilibrista: con un piede nel Palazzo e l’altro nel sindacato, sperando che la fune tenga. Ma attenzione: non è detto che regga all’umidità del compromesso. Perché se è vero che la politica è anche arte dell’opportunismo, resta il fatto che chi si muove troppo tra i piani inclinati del consenso rischia, alla lunga, di scivolare proprio nel vuoto che ha provato a riempire.

 

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