di Carlo di Stanislao
“Quando i popoli non trovano grandi uomini a guidarli, si accontentano dei buffoni.” – Georges Bernanos
Sfogo di un cittadino stanco di aspettare la politica vera
L’Italia si sta spegnendo lentamente. Non per mancanza di intelligenze, non per assenza di passione civile. Ma perché non ci sono più condottieri, idee, visioni. La politica, quella autentica, ha lasciato il campo a un mercato di slogan, influencer in giacca e cravatta, professionisti del consenso che non hanno nulla da dire, ma tutto da gestire. Intorno, il silenzio colpevole di sindacati piegati su se stessi e partiti d’opposizione incapaci di opporsi davvero.
Ci si scandalizza, ancora, per la crescita della destra. Ma indignarsi è diventato un riflesso condizionato. Il vero scandalo è che nessuno offre un’alternativa credibile. La destra avanza perché riempie un vuoto: parla un linguaggio semplice, polarizza, illude. Ma almeno parla. Gli altri tacciono o balbettano. Si dividono, si accusano, si rifugiano nei tecnicismi o nell’estetica del politicamente corretto, mentre il Paese affonda nella precarietà esistenziale.
Eppure basterebbe tornare a dire qualcosa di chiaro. Basterebbe avere il coraggio di scegliere. Ma chi oggi ha il fegato di dire “io sono socialista” o “io voglio lo Stato imprenditore”? Chi osa parlare di salari, di scuola pubblica, di democrazia economica? Nessuno. Si galleggia. Si modera. Si cerca il consenso, non il cambiamento.
Un tempo i sindacati facevano paura. Trattavano, lottavano, rompevano le scatole. Oggi sembrano amministratori di relazioni industriali, più preoccupati di salvaguardare la propria esistenza che di rappresentare davvero milioni di lavoratori. Mentre i contratti restano bloccati, i salari crollano, la sicurezza scompare, nessuno scende in piazza con convinzione. La Cgil parla con toni da convegno. La Uil e la Cisl si sono rintanate nell’equilibrismo. Ma i lavoratori sono sempre più soli, e si vede.
I sindacati non hanno saputo rinnovarsi, non hanno compreso il nuovo proletariato: i rider, i precari cronici, gli under 35 intrappolati nel lavoro a chiamata. Hanno perso contatto con la realtà. E ora non rappresentano più, ma gestiscono. Con dignità, forse. Ma senza forza.
Nel marasma attuale, la memoria corre a chi — piaccia o no — aveva una visione. Bettino Craxi, figura complessa e divisiva, almeno sapeva dove voleva andare: un’Italia moderna, forte, laica, europea. Aveva un’idea di Stato, di riformismo, di ruolo internazionale. Parlava con brutalità ma con sostanza. Era odiato e adorato, perché esisteva davvero. Oggi nessuno suscita odio o amore: solo indifferenza.
E poi c’è chi, come Domenico Susi, non ha mai cercato i riflettori, ma ha rappresentato l’ultimo baluardo di una politica vissuta come dovere e testimonianza. Susi non è stato un nome da titoli cubitali, ma un esempio concreto di come si può essere politici senza perdere l’anima. Radicato nel territorio, fedele a un’idea, refrattario alle scorciatoie del potere. Ha costruito reti, ascoltato, combattuto. Non cercava follower, ma consenso reale. Parlava la lingua della gente, ma non per imitarla: per rappresentarla. E la rappresentava davvero.
Chi lo ha conosciuto ricorda un uomo asciutto, diretto, con lo sguardo sempre orientato al futuro ma i piedi ben piantati nella storia. Non c’erano slogan nei suoi discorsi, ma proposte. Non c’erano tweet, ma visioni. In un’Italia che dimentica, Susi è il simbolo di quella politica che oggi manca disperatamente: onesta, competente, popolare ma mai populista.
Non basta fondare nuovi contenitori. L’Italia non ha bisogno di un altro logo, ma di un’anima politica. Servono leader disposti a perdere consensi pur di dire la verità. Servono sindacati che tornino a essere voce e corpo della protesta. Servono partiti che escano dai palazzi e tornino nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri.
La nostalgia non basta, ma ricordare chi eravamo può aiutarci a capire chi potremmo essere. Non torneranno Craxi o Susi. Ma può tornare la voglia di lottare, di scegliere, di credere. Finché non accadrà, la destra avrà campo libero. E noi, muti e disillusi, continueremo a guardare l’Italia scivolare piano, senza nessuno al volante.