“Chi non è disposto a cambiare mentalità, è destinato a scomparire.”
— Arrigo Sacchi
Luciano Spalletti era stato scelto per guidare la Nazionale Italiana in un momento delicato, ereditando una squadra reduce da un Europeo vinto ma profondamente instabile. Il suo arrivo era stato accolto con entusiasmo e fiducia, ma oggi, dopo mesi di prestazioni altalenanti, la sua avventura è finita lasciando dietro di sé più dubbi che certezze. E proprio oggi, 10 giugno, è arrivata un’altra notizia significativa: Claudio Ranieri ha ufficialmente rinunciato all’incarico di commissario tecnico della Nazionale, mettendo fine a settimane di speculazioni sul suo possibile ritorno in azzurro.
Ranieri ha motivato la sua rinuncia con l’incompatibilità del ruolo di CT con il suo attuale incarico di consulente tecnico della Roma. Sebbene avesse manifestato interesse e disponibilità per guidare gli Azzurri, ha scelto di rimanere legato al progetto del club giallorosso. Un’altra porta che si chiude, proprio mentre la Nazionale è senza timone, in una fase storica in cui servirebbero idee forti, non fughe o soluzioni tampone.
Ma davvero il problema della Nazionale si riduce alla figura del commissario tecnico? La risposta è no. Il declino del calcio italiano ha radici molto più profonde. Pensare che basti cambiare l’allenatore per invertire la rotta è una comoda illusione. Da anni assistiamo a un lento sgretolarsi del sistema: vivai deserti, giovani che non trovano spazio nei club, dirigenti più interessati alle plusvalenze che alla progettualità. La Serie A è ormai una vetrina per stranieri di seconda fascia, ingaggiati a basso costo e rivenduti per far quadrare i bilanci. Il talento italiano viene sacrificato in nome dell’immediato, dell’apparenza.
All’estero, la situazione è ben diversa. La Francia continua a produrre talenti in modo sistematico grazie a centri federali come Clairefontaine. L’Inghilterra ha rivoluzionato i settori giovanili con l’EPPP, trasformando le accademie in fucine di campioni. In Germania, dopo il crollo degli anni 2000, è nata una nuova generazione alimentata da riforme profonde. E in Spagna, la scuola tecnica continua a generare giocatori pensanti e dotati, anche in tempi di crisi economica.
In Italia, invece, si invocano sempre soluzioni superficiali. Si cambia CT, si discute del modulo, si cerca il nome giusto per la panchina. Ma il terreno da cui pescare è sempre più sterile. I vivai vengono usati come leva finanziaria, i giovani italiani ceduti in prestito eterno o lasciati marcire in panchina. Le categorie inferiori non sono una fucina, ma un rifugio per stranieri comunitari presi solo per rispettare le norme. E intanto, nelle competizioni giovanili e internazionali, l’Italia scompare.
Non è una crisi tecnica, ma culturale. È la mentalità del “tutto e subito”, dell’allenatore visto come capro espiatorio, della stampa che alimenta illusioni e di un movimento privo di visione. Nessun commissario tecnico potrà far rinascere un calcio che ha smesso di credere in sé stesso. La Nazionale non può essere l’eccezione eroica di un sistema marcio: deve diventare il simbolo di un nuovo inizio, ma serve un progetto radicale, che parta dai vivai, dai dirigenti, dagli stadi, dalla formazione dei tecnici.
Con la rinuncia di Ranieri e l’addio di Spalletti, il futuro della Nazionale è sospeso. Tra i nomi in lizza per il nuovo CT figura Stefano Pioli, ex allenatore del Milan, ma la questione va oltre il casting di un selezionatore. Serve una figura che abbia il coraggio di ricostruire, non solo di gestire. Una guida che non si limiti a convocare i meno peggio, ma che pretenda — e ottenga — riforme reali. La Nazionale è ancora una delle poche istituzioni capaci di unire un Paese. Ma per farlo, deve tornare ad avere un’anima.
Oggi, la panchina è vacante. Ma il vuoto più grande è fuori dal campo. Il calcio italiano ha bisogno di una scossa profonda, non dell’ennesimo giro di poltrone. Il prossimo commissario tecnico sarà importante, certo. Ma da solo non basterà. Non basterà mai.
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