La recensione del Direttore Daniela Piesco
Silent Hortense” di Jaume Plensa non è solo una scultura. È un intervento chirurgico nell’anima della nostra epoca. Piantata nel centro di Napoli come un monolito sacro, questa figura di nove metri ci mette di fronte alla nostra più grande paura: il silenzio.
Plensa non ha modellato marmo, ha scolpito un’ossessione. Hortense non è una dea che benedice – è uno specchio spietato. La sua superficie bianca, immacolata, è un insulto alla nostra sporcizia digitale, al fango di notifiche e rumore in cui viviamo immersi. Quelle mani che coprono il volto non nascondono pudore: comprimono un urlo che non deve uscire. Un urlo che, trattenuto, diventa silenzio assoluto.
È questo il gesto rivoluzionario. In un’epoca dove il rumore è la nostra droga, dove non sappiamo più stare soli con i nostri pensieri, Hortense pianta il suo silenzio come una bandiera di guerra. A Napoli, città che vive di voci e clamore, lei oppone l’immobilità più violenta che esista.
Il suo sguardo velato non è misterioso – è disilluso. Ci guarda con la stanchezza di chi ha già capito tutto di noi: la nostra incapacità di sopportare il vuoto, la nostra fuga disperata verso il caos esterno per non sentire quello interno. Quel velo sui suoi occhi è la barriera che ha dovuto erigere per proteggersi dalla nostra mediocrità.
Hortense è bella di una bellezza glaciale che non consola, ma disseziona. La sua grazia eterea riflette la nostra frenesia, la sua calma accusa la nostra dipendenza dal rumore. Non abbellisce Piazza Municipio – la infetta di verità.
Plensa ha creato un catalizzatore di angoscia necessaria. Ci ricorda che le verità più devastanti, quelle che possono salvarci o distruggerci, non stanno nelle parole urlate ma nel silenzio che le precede. È un ultimatum scolpito nella pietra: fermati, spegni il rumore esterno, affronta il frastuono interno. O soccombi.
Quel gesto apparentemente fragile è la provocazione più potente che l’arte potesse lanciare in questo secolo. Una domanda semplice ma terrificante: osiamo ascoltare il suo silenzio, o siamo già troppo morti per sentirlo?
pH Sergio Nardò