Di Antonio Corvino

Andare a votare per ridare dignità al lavoro ed agli immigrati oltre che all’Italia intera?
Certo. Ma c’è un altro motivo addirittura più pregnante: restituire diritto di cittadinanza al confronto e salvare dall’estinzione il dissenso.
Allora il referendum dell’8/9 giugno 2025 è quel che ci vuole per rimettere in piedi un’Italia rovesciata, se mai i suoi cittadini usciranno dal letargo e ignoreranno gli inviti del governo, della maggioranza che lo sostiene e del Presidente del Senato, a disertare le urne sventando e magari coprendo di ridicolo il tentativo di svuotare la dialettica democratica cancellando il dissenso, disinformando e limitando le possibilità oltre che la volontà ad esprimerlo addirittura inibendo gli spazi in cui esso si può e si deve esprimere.
È la risposta necessaria per fermare il declino della nostra democrazia, incamminata a diventare democratura.
Non è questione da poco. C’è un momento nella vita degli uomini e dei popoli in cui si impone il dovere morale, prima che civile, di negare e contraddire la volontà del potere pena il manifestarsi di una nemesi che potrebbe schiacciarli e condannarli alla assuefazione ad una vita da sudditi.

Racconta Sofocle che Antigone diede sepoltura al fratello Polinice violando la legge di Creonte. La punizione fu tremenda e le conseguenze deflagranti.
Antigone venne condannata a morte e murata viva in una tomba.
Il vecchio Tiresia mise però in guardia Creonte contro tanta violenza.
Antigone aveva obbedito ad una legge morale che andava oltre la legge degli uomini e lo stesso decreto del re, avvertì.
Lo stesso popolo tebano manifestò pietà e a gran voce chiese clemenza per l’infelice creatura.
Creonte turbato tornò al fine sui suoi passi ordinando la liberazione di Antigone.
Troppo tardi.
La fanciulla si era tolta la vita, impiccandosi.
Emone figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone non resse al dolore e pose fine anch’egli ai suoi giorni suicidandosi a sua volta.
Al re di Tebe non restò che maledirsi per la durezza del suo cuore e la sordità della sua mente che avrebbe attirato su di lui e sulla città la nemesi divina.
I greci escogitarono così l’ostracismo per preservare gli equilibri della Polis ponendola al riparo dalle possibili conseguenze dell’azione degli oppositori.
La tirannide, forma di governo monocratica che non ammetteva dissenso e rendeva il popolo schiavo, secondo la definizione di Erodoto, era sempre in agguato, anche se era al popolo che il tiranno faceva riferimento per avallare o consolidare il proprio potere.
Le polis si trovarono così ad affrontare la questione del cambiamento e dell’impatto del dissenso rispetto all’azione del governo.
La democrazia greca doveva fare i conti con un’oligarchia di origine aristocratica spesso rissosa che deteneva ricchezze e potere e decideva le sorti stesse della città ma anche con il popolo che talora si produceva in clamorose sommosse soprattutto allorquando l’eccessiva concentrazione delle ricchezze negli oligarchi lo estrometteva dalla loro distribuzione, per esempio nel caso di guerre vittoriose allorquando esso rivendicava per sé un’equa ripartizione del bottino.
Gli imperatori romani risolsero la faccenda elargendo panem et circenses.
Platone nella Repubblica e Aristotele nella Politica intanto avevano definito i confini ed i caratteri del potere democratico e di quello monocratico. In essi la partecipazione dei cittadini rappresentava il discrimine.
Governo e dissenso si ponevano dunque come i poli della vita della polis.
Il potere monocratico prevalse anche a Roma allorquando la Repubblica venne sopraffatta dall’Impero.
Bisognerà attendere il rinascimento perché le antiche polis riemergessero nei liberi comuni che tuttavia evolsero anch’essi rapidamente in Signorie quando non confluirono nei recinti di re ed imperatori.
E bisognerà attendere l’illuminismo, la rivoluzione francese e la guerra civile nordamericana per la definitiva consacrazione del potere del popolo che peraltro dovette sempre fare i conti con le derive monocratiche che intanto nei tempi moderni avrebbero assunto la forma conclamata delle dittature che si appellavano al popolo, salvo privare quest’ultimo di ogni diritto, compreso quello di dissentire.
La Democrazia, quella nata dall’illuminismo, era l’unica ad aver assunto il dissenso come dato fisiologico del proprio essere, affermarsi e progredire.
Emblematica in questo senso l’affermazione della biografa di Voltaire ( Evelyn Beatrice Hall “Gli amici di Voltaire”) tesa a sintetizzare il suo pensiero “ disapprovo quel che dite ma difenderò sino alla morte il vostro diritto di dirlo”…ma Voltaire aveva fiducia nella luce della ragione.
Ed arriviamo alla contemporaneità. Alle aberrazioni delle dittature e dei regimi totalitari che negarono il dissenso con ogni forma di violenza sino a quelle più estreme che, come per Antigone, contraddicevano anche la legge morale.
Servirono guerre estreme anch’esse per venir fuori dalle dittature.
E servirono sofferenze altrettanto inaudite e lunghe per la consunzione dei regimi totalitari, primo fra tutti quello sovietico che infine implose su sé stesso.
Le democrazie si diedero delle costituzioni che le avrebbero dovute difendere da ogni recrudescenza violenta.
Al centro di esse la volontà popolare che, sulla scorta del pensiero degli illuministi e dopo gli olocausti nazifascisti, si pensava fosse ormai per sempre vaccinata contro quelle derive.
Vi erano parlamenti e governi, istituzioni e magistrature atte a definire e garantire i percorsi dei popoli. E leggi furono varate per regolarne il funzionamento. Tra queste anche le leggi sui referendum che stabilivano la diretta chiamata alle urne del popolo tutto intero e dei singoli cittadini per dirimere dilemmi ed affermare principi fondamentali per essi.
I mutamenti delle competenze e attribuzioni del governo venivano sottoposti a procedure severe che contemplavano il pronunciamento popolare. I mutamenti epocali del sentire sociale, laico e religioso, vennero sanciti dai referendum e con essi l’allargamento degli spazi di civiltà e di liberazione del popolo.
L’espressione del voto era sale e lievito della democrazia.
In Italia le percentuali del voto sono state storicamente tra le più altre in Occidente.
Lo spavento del fascismo aveva fatto scuola.
Anche i referendum avevano un’aura di sacralità che si traduceva in una mobilitazione della gente e dei movimenti e partiti politici che su di essa basavano la propria legittimazione.
Poi il tempo e le incrostazioni della rappresentanza popolare cominciarono ad affievolire l’entusiasmo e a ridurre la partecipazione.
I miracoli economici e democratici rivelarono delle lacune da cui presero l’abbrivio derive niente affatto rassicuranti.

L’economia prese il sopravvento sulla politica.
Le devianze iper capitalistiche imposero i loro interessi che tracimarono ovunque travolgendo le stesse istituzioni che per sé teorizzarono, al pari delle aziende multinazionali, efficienza di costi ed efficacia di risultati contro ogni idea, ritenuta inutilmente ed assurdamente utopistica, di benessere, felicità e partecipazione collettiva.
Le privatizzazioni fecero il resto. Ed anche le istanze democratiche subirono un deciso declino.
E seguì anche la mutazione genetica dei lavoratori, divenuti “forza lavoro”, “merce” da offrire su un mercato sempre più inflazionato che la pagava sempre meno avendone negato ogni valore umano, culturale ed ogni contenuto di libertà.
Così la società cominciò ad imbarbarirsi, a negare la cultura ed a deridere ogni espressione di crescita civile, sociale, individuale e collettiva.
L’imperativo per il potere era perpetuarsi contro ogni dissenso esattamente come era stato sancito da Creonte.
Per la gente, disillusa, prevalse la necessità di sopravvivere.
La competizione non lasciava spazi al pensiero, alla solidarietà, alla stessa vita partecipata.
Il lavoro finì di essere un percorso di affermazione individuale e di liberazione sociale per assurgere al ruolo di rimedio necessario quanto estemporaneo per tirare avanti alla meno peggio e magari da barattare con qualche bonus.
Niente tutele, niente certezze, niente sicurezze.
La mancanza di esse faceva il paio con la trasformazione stessa del lavoro in “prestazione d’opera” da offrire in mille modi e tutti precari, inclusa l’iscrizione al registro delle imprese o ad una agenzia di lavoro interinale, in ossequio all’efficienza delle grandi e meno grandi imprese ed alla loro religione del contenimento dei costi, a prescindere da tutto, sicurezza inclusa.
Piuttosto che ripristinare il primato del lavoro la nuova italica repubblica, sempre più irretita dai lacci della visione aziendalista e manageriale iniettata dal Club Bilderbeg, fece proprie le derive iper capitaliste.
Gli ospedali divennero aziende. Anche le scuole divennero aziende e pure le università si adattarono a mettere in cima ai loro obiettivi la competizione che intanto veicolava nei gangli del potere, dal governo al parlamento, alle istituzione, la cooptazione contrabbandata per meritocrazia, rinunciando al sapere ed alle competenze oltre che alla giustizia sociale e alla crescita civile.
Le fabbriche erano ridotte a delle isole destinate a sopravvivere nelle attività residuali votate a distruggere l’ambiente circostante e la salute di chi vi abitava in attesa della definitiva consunzione.
La ricchezza si concentrava senza rimedio, capitalizzando, con l’innovazione tecnologica, anche le rendite liberate dall’impoverimento del lavoro.
La redistribuzione di essa veniva negata dai nuovi signori e padroni mentre la politica costruiva, in luogo dello Stato Sociale, lo Stato assistenziale che assegnava bonus in cambio di consenso. E mentre ragazzi e ragazze partivano a milioni dall’Italia e soprattutto dal Mezzogiorno con destinazione paesi europei e non, il potere di casa, divenuto schizofrenico, ignorava il fenomeno dello spopolamento e chiudeva verso i migranti che intanto percorrevano deserti e mari in cerca, a casa nostra, di pace e di quel minimo per sopravvivere.
La democrazia autoritaria avanzava verso la democratura coltivando il desiderio di trasformarsi, più in là, in dittatura conclamata, magari avallata da periodici successi elettorali costruiti su parole d’ordine e slogan vuoti quanto consunti e irrispettosi per i propri stessi connazionali nel frattempo espatriati all’estero in massa.
La difesa dei confini della “patria” contro “invasori” inermi e disarmati oltre che stanchi ed affamati venne affermata addirittura in termini epici come se dal mare arrivasse un’armata pronta ad oscurare il sole e ad annientare la sopravvivenza stessa della nazione.
Quanti erano, finalmente, entrati furono posti in quarantena decennale per ottenere la residenza per sé ed i propri figli, nel luogo dove vivevano e lavoravano, essendo nel frattempo divenuti parte integrante, e benemerita, insufficiente ahimè, della società italiana in caduta libera quanto a crescita demografica e addirittura quanto a lavoratori, tutti in fuga, quelli italiani, verso l’estero, visto che qui i salari e stipendi crollavano senza posa.
Nel frattempo le elezioni non erano più così importanti.
La gente prese a non recarsi più alle urne per eleggere rappresentanti che avevano sempre più le stigmate dei predestinati e cooptati.
La coscienza civile e culturale, dapprima ignorata e poi distorta con somministrazioni di dosi massicce di vuoto edonismo e ignoranza gratuita, era stata ridotta anch’essa ad una dimensione di intorpidimento.
I referendum previsti dalla costituzione, al pari del lavoro, furono svuotati del loro senso e ridotti a superfetazioni istituzionali inutili e fastidiose.
Di pari passo il dissenso era stato derubricato a rumore di fondo da cancellare per non disturbare i manovratori alla guida del paese. Non era più un diritto sacrosanto ma addirittura un reato dissentire, protestare. Leggi in tal senso venivano varate ed immaginate a spron battuto.
Tornava di prepotenza l’era di Antigone. Ancora una volta.
Ecco perché andare a votare assume oggi un valore etico e morale che riempie di contenuto esistenziale l’obiettivo referendario di ripristinare i diritti del lavoro cancellati e di riconoscere quelli ancora negati a quanti, immigrati e figli di immigrati, vivono e lavorano in questo paese.
Esprimersi sui cinque quesiti referendari del 8/9 giugno significa quindi riaffermare il valore costituzionale del lavoro contro la mercificazione di esso e affermare il primato dell’integrazione dei migranti che risponde allo stesso interesse nazionale in un paese in evidente declino demografico ed in affanno addirittura rispetto alle necessità dell’apparato economico-produttivo e alle esigenze del più ampio sistema sociale.
È tempo, dunque, di ribadire nelle urne il valore del lavoro per come esso è declinato dalla Costituzione e di esprimere la volontà inclusiva della nazione per quanti sono arrivati e si sono integrati in essa, secondo lo spirito della stessa costituzione.
Ed è anche tempo di fermare il disimpegno prodromo dell’indifferenza che spinge la democrazia verso la democratura che, ahimè, fa rima con dittatura.
Si tratta di fermare, finché siamo in tempo, ancora una volta, la nemesi della storia… o quella divina se più vi piace.

 

pH Pixabay senza royalty

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