“La libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente.” — Rosa Luxemburg

All’alba, un’esplosione scuote le acque dello stretto di Kerch. Una colonna d’acqua si alza nel cielo, frammenti di cemento e metallo ricadono sulle onde. Ancora una volta, il Ponte di Crimea – arteria strategica e simbolo della presenza russa nella penisola annessa – è stato colpito. E ancora una volta, a migliaia di chilometri, gli uomini dell’intelligence ucraina brindano al successo di un’operazione meticolosamente preparata.

Si tratta del terzo attacco al ponte dall’inizio della guerra: il primo avvenne nell’ottobre 2022 con un camion bomba, il secondo nel luglio 2023 con droni marini. Stavolta, secondo quanto dichiarato dall’SBU, gli agenti ucraini hanno minato i piloni subacquei per mesi, fino all’innesco esplosivo di 1.100 chilogrammi alle 04:44 del mattino, ora locale. Il danno, oltre che infrastrutturale, è fortemente simbolico: Mosca è vulnerabile, anche nei luoghi che considera ormai “sicuri” e stabilmente annessi.

L’offensiva però non si ferma lì. Sabato, Kiev ha lanciato una delle sue operazioni militari più spettacolari, distruggendo 41 velivoli militari russi, compresi bombardieri strategici, in diverse basi dell’interno della Russia, addirittura fino in Siberia. È un messaggio chiaro, diretto al Cremlino e al mondo: l’Ucraina non è disposta a piegarsi, e possiede ancora la forza e l’intelligenza tattica per colpire il cuore dell’apparato militare russo.

Nel frattempo, il costo umano del conflitto resta altissimo. Nelle ultime 24 ore, attacchi russi su Sumy hanno provocato quattro morti e 24 feriti, mentre un raid aereo ha colpito un’area residenziale di Kharkiv causando almeno due vittime. Zelensky lo ha ribadito con parole dure: “Non c’è un solo giorno in cui la Russia smette di attaccare le città e i villaggi dell’Ucraina”. Una guerra di logoramento, fatta di droni, missili e bombe, in cui ogni giorno si sommano vittime e distruzioni.

Nel frattempo, sul fronte diplomatico, tutto resta fermo. L’ultimo incontro a Istanbul non ha prodotto avanzamenti significativi. Il memorandum proposto dalla Russia non è stato accolto né da Kiev né dai suoi alleati: è stato definito un documento che chiede in sostanza la resa dell’Ucraina. La neutralità proposta da Mosca è vista come una trappola: trasformare il paese in una terra di nessuno, priva di autodeterminazione, sospesa tra Russia e Occidente.

Il Cremlino, dal canto suo, ostenta ottimismo: il portavoce Peskov parla di “lavoro in corso” e “accordi importanti”, ma non cita nulla di concreto. La vera voce della strategia russa appare invece più nitidamente nelle parole di Dmitry Medvedev, fedelissimo di Putin, che dichiara apertamente che i negoziati non servono a una pace di compromesso, ma alla “rapida vittoria” russa e alla “completa distruzione del governo neonazista” di Kiev. Una posizione che di fatto smentisce ogni reale apertura.

Kiev ha intensificato anche la sua offensiva diplomatica. Dopo Istanbul, Andriy Yermak, capo dell’ufficio presidenziale ucraino, si è recato a Washington per sollecitare nuovi provvedimenti economici contro Mosca. Al centro dei colloqui, la proposta del senatore Lindsey Graham per introdurre una tariffa del 500% sui beni importati dai paesi che acquistano risorse energetiche dalla Russia. Un tentativo di colpire indirettamente quei paesi che continuano a finanziare, seppure indirettamente, la macchina bellica russa.

Anche l’Unione Europea non resta in silenzio. “La Russia mostra ancora di rifiutare negoziati in buona fede”, ha dichiarato la portavoce del Servizio di Azione Esterna Ue, Anitta Hipper. “Le sue richieste implicano l’accettazione della continua aggressione e la negazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina”. Parole forti, che però devono tradursi in azioni concrete.

Putin e l’accerchiamento NATO: paranoia strategica o calcolo geopolitico?

Per comprendere la postura della Russia, è essenziale entrare nella logica di Vladimir Putin. La sua visione del mondo è plasmata da una narrativa di accerchiamento: la convinzione che la NATO, espandendosi a est dopo la caduta del Muro di Berlino, abbia infranto le promesse fatte implicitamente a Gorbaciov e minacci il cuore stesso della sicurezza russa.

Dalla prospettiva del Cremlino, ogni nuova adesione all’Alleanza Atlantica – dalla Polonia alla Lituania, fino alla recente svolta storica della Finlandia e della Svezia – non è un atto volontario di nazioni sovrane, ma un’offensiva silenziosa dell’Occidente per strangolare militarmente la Russia.

L’Ucraina, in questo quadro, rappresenta la linea rossa. Un paese cuscinetto, ma anche uno specchio culturale e storico: il luogo dove è nata la civiltà russa con la Rus’ di Kiev. Vederla orientarsi verso l’Occidente è, per Putin, una doppia minaccia: geopolitica e simbolica. La sua eventuale adesione alla NATO viene letta come una porta spalancata a truppe straniere alle porte della Russia, a pochi chilometri da Belgorod e Rostov.

Questa paranoia strategica, reale o costruita, ha nutrito le radici profonde dell’invasione del 2022. In fondo, per il Cremlino, fermare l’Ucraina significa fermare l’avanzata di un modello – quello democratico, filo-occidentale, aperto – che potrebbe diventare contagioso anche all’interno della stessa Russia.

La guerra in Ucraina è quindi anche una guerra contro un futuro possibile: quello in cui Mosca, anziché esercitare controllo sui suoi vicini, dovrà confrontarsi con la possibilità di perdere il suo status imperiale. Ed è proprio questo che il potere putiniano rifiuta.

Una riflessione: a chi conviene che la guerra continui?

È legittimo chiederselo, non solo in Ucraina, ma anche altrove: in Palestina, in Sudan, nello Yemen, in Myanmar. In tutti questi teatri, dietro ogni conflitto che si trascina, ci sono interessi – economici, politici, strategici – che si nutrono della guerra.

A qualcuno conviene che la guerra continui.

Conviene ai regimi autoritari, che usano il conflitto esterno per consolidare il potere interno e reprimere ogni dissenso. Conviene all’industria bellica globale, che in tempo di pace fatica a giustificare investimenti miliardari, ma che in tempo di guerra trova linfa vitale nei contratti governativi. Conviene a certe potenze che vogliono mantenere instabile l’ordine mondiale per guadagnare spazio politico. E, più subdolamente, conviene anche a chi specula sull’energia, sui cereali, sulle rotte marittime, approfittando della fragilità del mondo.

Ma non conviene mai ai popoli. Non conviene ai bambini sotto le bombe, alle famiglie divise, agli anziani abbandonati nei villaggi fantasma. Non conviene a chi sogna un futuro normale. E non conviene nemmeno alla democrazia, che in tempo di guerra è sempre più fragile, più ricattabile, più tentata dalla deriva autoritaria.

Per questo, domandarsi “a chi conviene la guerra?” non è cinismo: è lucidità. La pace non arriverà da sola. Va costruita, passo dopo passo. E per costruirla serve anche smascherare chi, dietro bandiere, ideologie e proclami patriottici, ha tutto l’interesse che il fuoco continui a bruciare.

Chi c’è davvero dietro al terrorismo

Quando esplode una bomba in una metropolitana, quando un attentatore si fa esplodere in un mercato, quando un commando armato assalta un teatro o una scuola, il mondo si ferma e osserva sgomento. Le autorità condannano. I media rincorrono immagini e nomi. Ma raramente si va oltre la superficie. Si guarda il dito, mai la luna.

Eppure, dietro al terrorismo – quello jihadista, quello separatista, quello “anarchico” o “religioso” – ci sono spesso regie più complesse, più opache, talvolta inconfessabili. Non è complottismo: è una realtà che gli storici e i documenti desecretati confermano.

Ci sono governi che hanno armato, finanziato o addestrato gruppi estremisti, nella speranza di usarli come strumenti di destabilizzazione nei confronti di rivali geopolitici. È accaduto in Afghanistan negli anni ’80, in Siria, in Libia. È accaduto – e continua ad accadere – in teatri dimenticati dove il caos è terreno fertile per ogni tipo di influenza.

Ma c’è di più. A volte, il terrorismo è alimentato non solo per combattere un nemico, ma per creare paura, giustificare repressioni, aumentare poteri speciali, sospendere diritti civili in nome della “sicurezza nazionale”. Quando una società vive nella paura costante, è più facile guidarla verso scelte drastiche, verso leggi eccezionali, verso una mentalità di guerra permanente.

Il terrorismo, così, diventa anche un strumento narrativo e politico. Serve a distrarre dai fallimenti economici. Serve a identificare un nemico interno o esterno contro cui indirizzare il malcontento. Serve, in certi casi, persino a ri-legittimare regimi traballanti.

Certo, esistono gruppi ideologizzati che agiscono in modo autonomo, fanatici che davvero credono in un’idea folle o in una vendetta religiosa. Ma quando certi gruppi riescono a spostare armi, soldi, tecnologie e miliziani su larga scala, la domanda deve sorgere spontanea: chi li aiuta davvero? Chi li lascia agire? Chi li manovra da dietro le quinte?

E soprattutto: cui prodest? A chi giova il caos che seminano?

Come per le guerre, anche per il terrorismo è fondamentale distinguere tra la realtà raccontata e quella effettiva, che si muove nei corridoi nascosti dei servizi segreti, delle alleanze ciniche, degli interessi economici globali. Non per trovare un colpevole unico, ma per non essere complici inconsapevoli del silenzio.

Perché dietro ogni attentato ci sono delle vittime, ma anche troppe volte delle ombre, degli interessi e dei calcoli. E smascherarli è il primo passo per disinnescare davvero l’odio e fermare la spirale della violenza.

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