“Il vero comico è un uomo disperato che ride per non urlare.”
— Henri Bergson (o forse Grillo sotto pseudonimo)
L’ultimo spettacolo di Grillo: il funerale del Movimento e il ritorno dello spettro
Il 3 giugno 2025, Beppe Grillo ha portato a compimento un’opera che solo lui poteva concepire: il funerale del Movimento 5 Stelle, celebrato da lui stesso, in carro funebre, con la compostezza cinica di un impresario di pompe funebri che incassa due volte — alla nascita e alla morte. “Il Movimento è stramorto, ma compostabile”, ha detto. Una battuta ecologista e tombale, da scolpire su una lapide biodegradabile.
Non è più satira: è necrologia creativa. Non è una crisi politica: è un’opera performativa. È il fondatore che guarda il suo stesso esperimento collassare su se stesso con un sorriso beffardo e il ghigno amaro di chi, in fondo, l’aveva previsto.
Perché diciamolo: Grillo non è tornato per dire addio. È tornato per spegnere definitivamente la luce, per assicurarsi che nessuno possa più fingere che il Movimento sia ancora vivo solo perché ogni tanto twitta. È il gesto del padre disilluso che, dopo aver lasciato il figlio gestire la casa, torna e trova tutto tappezzato di mediocrità.
Giuseppe Conte — l’ex avvocato del popolo diventato amministratore di condominio dell’ex partito anti-sistema — prova a reagire, blandamente. Parla di apertura, di futuro, di comunità. Ma la sua voce non taglia, non smuove, non infiamma. È come ascoltare un podcast sul compostaggio mentre fuori infuria un temporale. Conte è diventato il perfetto leader di un partito che non sa più se è di lotta, di governo o solo di transizione. E il Movimento, nel frattempo, ha abbandonato ogni traccia di identità per rifugiarsi nella zona più temibile della vita politica: quella patetica.
Sì, patetica. Non nel senso compassionevole del termine, ma nel senso più crudo: tristemente goffa, stancamente posticcia, incapace di evocare altro che nostalgia per se stessa. È quella fase in cui un partito non ha più spinta né stile, ma continua a muoversi come un automa, a produrre comunicati, a cambiare regolamenti, a parlare di “valori fondanti” che ormai non scaldano nemmeno un post su Facebook. È la politica che si trucca per sembrare giovane mentre puzza di vecchio. È l’attivismo da salotto, la rivoluzione da convegno.
E nemmeno l’ingresso nel partito di una figura come Ilaria Salis, forte di una vicenda personale che in altri tempi avrebbe incendiato l’immaginario grillino, riuscirebbe oggi a restituire un senso a tutto questo. Non per demeriti suoi, ma perché il Movimento non è più capace di assorbire simboli vivi. È come una pianta inaridita a cui si appende una ghirlanda fresca: bella da vedere, ma priva di radici. L’innesto di Salis nel 5 Stelle oggi suonerebbe più come un tentativo disperato di acquistare identità sul mercato della sofferenza che come un atto politico. Sarebbe la prova definitiva che il Movimento ha smesso di generare idee e ha iniziato a cercare testimonial.
Lo stesso copione lo recita la Lega con Vannacci: l’uomo forte da talk show, il generale del “buonsenso”, l’apripista per una destra testosteronica da sagra. Ma nemmeno lui, con tutto il rumore che porta, riesce a rianimare il partito di Salvini. Perché l’anima non si compra. Né con Salis, né con Vannacci. L’identità politica non si rianima con le controfigure. Quando il fuoco si spegne, puoi anche soffiare quanto vuoi: resta solo cenere e imbarazzo.
Grillo tutto questo lo ha capito. Forse prima di tutti. Ed è per questo che ha deciso di tornare a chiudere il sipario con una delle sue scenette estreme, tra sarcasmo e lutto, tra teatro e disprezzo. In quel video non c’è solo un leader che saluta. C’è un autore che sconfessa il sequel della sua opera. C’è un visionario che guarda il suo sogno trasformato in burocrazia e ne prende le distanze. Come se Stanley Kubrick tornasse per impedire che qualcuno firmi 2001 – Parte 2.
Il Movimento non è morto il 3 giugno. È morto quando ha smesso di disturbare, di essere inappropriato, scomposto, disallineato. Quando ha preferito sembrare serio anziché essere incisivo. Quando ha smesso di essere un movimento e ha iniziato a essere solo un partito. Da lì in poi è iniziata la trasformazione in qualcosa che Grillo non riconosce più. E da lì in poi, tutto è diventato semplicemente, tristemente, patetico.
Ma la scena finale resta sua: Grillo, da solo, che guida un carro funebre e ride. Una risata che suona come l’unico suono sincero rimasto in tutta questa vicenda. Una risata che seppellisce, più di mille congressi, l’illusione che il cambiamento potesse diventare istituzione senza diventare caricatura.
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