di Carlo di Stanislao

“La guerra è un massacro fra gente che non si conosce, a beneficio di gente che si conosce ma non si massacra.”
— Paul Valéry

Ci sono silenzi che fanno più rumore delle bombe. Ci sono assenze che gridano. E ci sono verità che, sebbene sotto gli occhi di tutti, diventano invisibili per comodità o paura. Oggi, tra le ceneri di Gaza e le ipocrisie delle capitali occidentali, siamo immersi in una di queste verità scomode: Israele sta affamando un intero popolo. Non è un’accusa leggera, e non dovrebbe mai essere pronunciata con leggerezza. Ma i fatti — quelli crudi, documentati, innegabili — parlano per sé. Ospedali rasi al suolo, ambulanze bersagliate, aiuti umanitari bloccati ai confini o colpiti durante la distribuzione. E adesso, la fame: calcolata, pianificata, utilizzata come arma.

Gaza è diventata una prigione a cielo aperto, senza acqua, senza medicine, senza pane. Una popolazione stremata, in gran parte composta da bambini, viene lasciata morire con lentezza chirurgica, nel silenzio complice di chi dovrebbe proteggere il diritto internazionale. Si può parlare di autodifesa quando il bersaglio è il latte in polvere? Si può ancora invocare la sicurezza quando si impedisce a un popolo l’accesso al cibo?

Israele, il cui nome significa “colui che lotta con Dio”, sembra essersi attribuito il diritto di portare questa lotta oltre ogni limite umano e divino. Ma la vera lotta con Dio non è nella vendetta, bensì nella giustizia. È nella compassione. È nel limite. Chi combatte contro il volto umano del nemico, chi disumanizza e punisce collettivamente, non sta lottando con Dio: sta perdendo la propria anima.

Ma se è vero che il Medio Oriente è la cartina di tornasole dell’etica internazionale, è altrettanto vero che anche a casa nostra la barbarie assume forme sempre più sottili. In Italia, recentemente, abbiamo assistito a un fenomeno allarmante: le minacce rivolte ai figli di leader politici. Che si tratti di Giorgia Meloni o Matteo Salvini, non è la persona politica a essere colpita, ma i suoi affetti più indifesi. È un gesto infame, codardo, che non può essere giustificato né dalla rabbia né dalla disperazione. È l’espressione più bassa e disumana del dissenso, quella che trasforma la protesta in persecuzione.

I figli sono sacri. Sempre. Che siano figli di potenti o di poveri, che abbiano una madre di destra o un padre di sinistra, sono esseri umani con il diritto di vivere lontano dall’odio degli adulti. Quando iniziamo a tollerare — o peggio, a giustificare — le minacce ai bambini in nome di una battaglia politica, abbiamo già perso. La violenza verbale è solo il primo passo verso una violenza più grande, e più irreparabile.

E poi, come ogni anno, arriva il 2 giugno. Si festeggia la Repubblica, si sventolano bandiere, si fanno discorsi solenni. Eppure, a ben guardare, la parola “Repubblica” è forse il termine più teorico di tutti. Nella realtà quotidiana dell’Italia, esistono i Comuni, i campanili, le famiglie, i clan, le parrocchie, i bar di paese, le amicizie d’infanzia. L’Italia è un Paese costruito più su legami orizzontali che verticali. La Repubblica è un’astrazione, spesso tradita proprio da chi dovrebbe rappresentarla.

C’è chi obbedisce alla Costituzione, e chi la piega alla convenienza. C’è chi parla di Stato, ma lavora solo per il proprio tornaconto. C’è chi indossa la fascia tricolore e poi ignora gli ultimi, i fragili, i senza voce. C’è chi grida “onore alla patria” e poi svende il lavoro, svilisce la scuola, taglia la sanità.

La verità è che l’Italia non è mai stata davvero una Repubblica nel senso profondo del termine: una res publica, una “cosa di tutti”. È sempre stata una somma di individui, di egoismi e resistenze, di slanci nobili e piccoli tradimenti quotidiani. Ma proprio in questa frammentazione può nascondersi una speranza: se la Repubblica è fragile, è proprio perché deve essere ogni giorno rifondata. Non da un’istituzione, ma da ogni persona che sceglie l’onestà, la solidarietà, la verità, anche quando costa.

E protestare davvero, oggi, significa anche alzare la voce contro tutti i regimi autoritari e antidemocratici del mondo. Contro la Russia, che imprigiona dissidenti e manda a morire i giovani in guerre insensate. Contro la Cina, dove milioni vivono sotto sorveglianza e repressione, e chi parla viene fatto sparire. Contro l’Iran, dove una ragazza senza velo può diventare un martire, e dove il carcere è destino per chi canta, scrive, ama o sogna. E contro tutti quei luoghi — anche meno noti — dove l’essere umano è ridotto a ingranaggio, dove vale la legge dell’uomo lupo per l’uomo, homo homini lupus, e non quella della dignità.

La guerra in Medio Oriente, la violenza nelle nostre piazze, l’illusione di una Repubblica unita, la viltà dei totalitarismi: tutto ci richiama a una stessa scelta morale. O difendiamo ovunque la libertà e la vita umana, o diventiamo complici del silenzio.

La festa della Repubblica dovrebbe essere l’occasione per guardarsi allo specchio e domandarsi: stiamo costruendo un Paese giusto o solo un palcoscenico per maschere stanche? Stiamo difendendo davvero i diritti di tutti o solo i privilegi di pochi?

Fino a quando un popolo verrà affamato senza che l’Italia dica “basta”, fino a quando i figli verranno minacciati per vendetta ideologica, fino a quando la Repubblica sarà solo una cerimonia e non una responsabilità, fino a quando taceremo davanti alla prigione e alla tortura degli innocenti… non ci sarà nulla da festeggiare.

 

pH Freepik senza royalty

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.