Pesci
‘MORTE TRA LE STELLE’
una raccolta di racconti noir dedicata al lato oscuro dei Segni dello Zodiaco
Ho sentito dire di un corpo orrendamente mutilato rinvenuto stamattina sulla riva del mare, vicino alle dune.
Conosco quel tratto di spiaggia. Ci sono passata anche stamane, molto presto, prima dell’alba.
Ci vado spesso, perché ho un bisogno “quasi vitale” dell’acqua, della sua vicinanza, del suo contatto, intendo.
Un istinto atavico, attraverso vibrazioni impercettibili che non so spiegare, mi spingeva, fin da piccola, verso l’acqua.
A differenza dei miei fratelli, sorelle, amici, che erano soddisfatti ed in pace con se stessi ovunque, per me era una sofferenza, una privazione, una frustrazione, il non poter avere quel contatto immediato e diretto nel preciso istante in cui lo desideravo.
Sulla terra ferma mi sentivo rigida, tutta d’un pezzo come una marionetta, con i movimenti limitati e manovrati dalle gigantesche mani dello spazio e del tempo.
I miei ritmi, già da allora, erano diversi rispetto a quelli degli altri. Goffa e impacciata, ritrovavo la mia scioltezza, la mia eleganza, la mia sicurezza, la mia spigliatezza, il mio dinamismo nell’acqua. Nell’acqua libravo leggera e leggiadra, come una libellula; le mie braccia si aprivano come ali velate e trasparenti, e le mie gambe, i miei piedi, così pesantisulla terra ferma, in quell’elemento senza in minimo sforzo piroettavano ed elevavano il mio corpo leggero, leggiadro, soave come quello della prima ballerina all’Opera.
Allora, quando ero una bambina, mi accontentavo di questo ed ero felice. Quel mio rapporto fantastico con l’acqua, quella simbiosi perfetta, mi gratificava e colmava tutte le lacune, tutti gli spazi, tutte quelle terre deserte, desolate e aride, del mio essere, che mi rendevano diversa dagli altri, insofferente e irrequieta nel vivere quotidiano.
Come un pesce fuor d’acqua che ritrova miracolosamente il suo elemento, entravo nel magico, nel sogno, nell’irrealtà, nella fantasia, nell’insondabile, nel duttile, nel movimento continuo, nell’eterno sciabordio delle onde, nel cullìo delle maree, nello scorrere del fiume, nel divenire dell’acqua, nel mutamento, nel cambiamento, nella leggerezza, nella bellezza, nell’eleganza e nella raffinatezza e mi lasciavo andare e trascinare dalla sua perfezione.
Mi lasciavo guidare e istruire dall’atavica e armonica saggezza dell’elemento primigenio. Ritrovavo equilibrio e serenità e ritrovavo me stessa, una me stessa che non aveva simili sulla terra ferma, né affini.
L’acqua è un eterno mutare di forme, di spazi, di luoghi, di tempo. La mia mente e il mio corpo gioivano e si rigeneravano in quel mutare, in quella dimensione in evoluzione, dove non c’era spazio, neanche nei meandri più reconditi, per desolazione, aridità, immobilità, noia, pesantezza. E nessun freno, nessuna manovra, nessuna costrizione occulta.
Nel mare, anche se rimani ferma, inerme, immobile, comunque ti muovi, comunque avanzi con la mente e con il corpo, trascinata da qualcosa che è vivo e magico e fantastico e straordinario. Sei sempre viva, d’una vita diversa, libera e leggera, più sensibile, più sensuale, più spontanea, più completa, di quella che vivi sulla terra ferma, dove anche un semplice passo può diventare di una difficoltà insormontabile se non è in armonia con il tuo essere. Dove il tuo cuore può inaridire e diramare in mille crepe profonde in cui facilmente e subdolamente si insinua e si insedia l’inedia, la noia e la morte.
Questo non succede nell’acqua. Io lo so. Perché l’ho vissuto sulla mia pelle. Certo, ero una bambina allora e di magia ne bastava molto poca per ammaliarmi.
Ora quella magia non mi basta più.
Il mare è sempre un richiamo per me, ma è un richiamo ovattato, silenzioso, malinconico, nostalgico, anche se vitale, che spesso, troppo spesso, viene sopraffatto da altri rumori, da altri suoni. I miei ritmi continuano ad essere diversi da quelli degli altri, ma il richiamo più forte adesso, in sintonia con me, è quello dell’ora del lupo.
Il suo suono sovrasta ogni altra realtà: è assordante, è ipnotico. Null’altro conta, null’altro mi attira, null’altro riesce a distrarmi. È nello stesso tempo suono, colore, voce, estasi e tormento. Nasce dall’irrequietezza che torna, che sale dalle crepe profonde. Quell’irrequietezza di sentirmi limitata, fuori posto, non indipendente, non autonoma ma manovrata, tirata con dei fili invisibili, subdolamente, come una marionetta, da mani rapaci, prepotenti, occulte. Sopraffatta, senza via d’uscita, dalle enormi braccia, dalle gigantesche mani, dagli avidi tentacoli del mondo “ufficiale”, quello che da sempre mi ha fatto sentire goffa, impacciata, inadeguata, pesante, diversa, fuori dimensione: un pesce fuor d’acqua.
È in quell’ora, che antiche leggende chiamano “l’ora del lupo”, quando ancora non è giorno, ma non è più notte, che il richiamo mi dà la forza di sganciare, di strappare quei fili, di riappropriarmi della mia energia vitale, della mia leggerezza, della mia fantasia, della mia dimensione, della mia libertà, della mia personalità, della mia sensibilità.
In quell’ora bruciano le crepe, come ferite profonde. Il richiamo alla vita atavica le fa dolorare. È più forte della morte che le ha bloccate, fermate, inaridite.
L’irrequietezza le fa pulsare, le fa sanguinare, e nella notte, quando il richiamo è più forte, assordante, ipnotico, il mio corpo torna a librare leggero e le mie braccia diventano ali immense, enormi, e le mie gambe si allungano slanciate e veloci. E danzo e volteggio, leggera, elegante, ignara di tutto ciò che non appartiene al mio mondo fantastico, al mondo dell’ora del lupo, liberando la mia fantasia, la mia creatività, gratificando e completando me stessa e il mio essere.
Certo, la saggezza dell’acqua, del fiume, del mare, è sempre dentro di me, fa parte
di me, ma vi ho lasciato entrare distrattamente, o forse imprudentemente, anche l’imponderabilità della notte, che mi affascina e mi ammalia; il mistero dell’ignoto che mi intriga; la suggestione delle leggende e delle tregende, che mi fa fantasticare; le incognite dell’insondabile, dell’immateriale, del soprannaturale, del crudele, del cruento e dell’irrazionale, che mi affascinano. La mia sensibilità, la mia sensitività, è aperta a tutto, è ricettiva a tutto, senza remore di moralità o di incredulità o di scetticismo. O forse queste “doti” erano già in me, nella mia dualità, nella mia forzata insicurezza, nella mia indotta incertezza e instabilità, nella mia fragilità, nella mia ipersensibilità. Nel mio essere diversa.
“L’ora del lupo” è mia sorella, è mia affine. È l’ora incerta, in bilico, il passaggio magico. Quella terra di nessuno in cui so coscientemente che lascerò dietro di me la notte, i dubbi, le paure, le sconfitte, i rimorsi, i rammarichi, le nostalgie, le malinconie ma che lascerò anche le mie certezze, le mie conquiste, le mie cose scontate, i miei punti di riferimento, le mie stelle guida, in cambio dell’alba, del giorno che verrà, della luce, del procedere, dell’avanzare verso l’incognito, verso l’insondabile, l’imprevedibile, verso quella che potrebbe essere la mia eternità o la fine.
È l’ora della scelta, del cambiamento, della presa di posizione: restare ferma a guardare nell’incertezza, nella contemplazione, nell’ansia, nel dubbio, nella paura, o strappare i fili e istintivamente andare, come i lupi ululanti incontro alla luna.
* . * .* . * : *
Questa è diventata la mia realtà. Non ho più scappatoie. Non ho più mondi segreti o magici in cui rifugiarmi, né favole su cui fantasticare, né dimensioni duttili dove muovermi e agire libera dai fili. Solo nell’ora del lupo ciò mi è possibile.
Lì, la mia irrequietezza trova una mèta, uno scopo, una alleata, una compagna, una complice, una salvatrice, un riscatto, una possibilità di libertà. E tutto ciò che avviene in quella dimensione, in quel tempo, in quello spazio, in quel colore, in quel sogno, mi riscatta e mi gratifica. Mi sazia, riempie i miei vuoti, irriga le aride crepe dei miei desertici sentimenti, sazia la mia smania di riuscita, di rivincita, di perfezione, di equilibrio, di ordine, di stabilità, di realizzazione. Colma la mia carenza di affetto, di tenerezza, di romanticismo, di amore. La mia leggerezza dell’essere. Sono troppo confusa, troppo instabile, troppo poco concreta, troppo egoista, troppo goffa, troppo volubile, troppo poco “terrena” per ottenere, o anche solo sfiorare queste “utopie”, queste “chimere”, nel quotidiano vivere.
Sono confusionaria, inconcludente, sperduta nel caos di cose, persone e sentimenti, per poter definire, terminare, forse anche solo amare veramente qualcuno o qualcosa.
È solo “nell’ora del lupo” che le mie utopie raggiungono un loro compimento. In quell’ora, grazie al riemergere del mio vero “essere”, leggero, libero, dinamico e spregiudicato, i miei “simili” mi sono accessibili. Inermi, soggiogati dalla mia personalità affascinante e ammaliante, si lasciano andare, teneri, fragili, ipnotizzati, rallentati o addirittura immobili, in uno spazio, in una relatività in cui io invece mi muovo leggera, leggiadra, come una libellula, una prima ballerina, padrona indiscussa e ammirata del palcoscenico, apparentemente innocuo ma incredibilmente letale.
È “nell’ora del lupo” che ho sbranato e dilaniato e disintegrato tutto ciò che di umano e di non umano ha tentato di sbarrare, intralciare, rallentare la mia danza di libertà. Metaforicamente, ovviamente. Non sono una violenta.
Perché? Perché sono diversa, irrequieta come un pesce fuor d’acqua, smanioso e boccheggiante di ritornare nel proprio elemento, pena la morte per soffocamento.
* .* . * .* .*
Ho visto quel corpo sulla spiaggia, stamane.
Per la verità ce l’ho lasciato io. Ma esagerano nel dire che fosse orrendamente mutilato. Chissà perché ci trovano tanto gusto a drammatizzare, a distorcere morbosamente la realtà, invece di lasciarla così com’è. Ipocrisia, credo.
Sì, l’ho ucciso io, e precisamente e coscientemente “nell’ora del lupo”, quando ero me stessa, quando non ero né goffa, né impacciata, né confusa, quando nessuna corda teneva a freno la mia volontà, la mia personalità, i miei sentimenti. Ma non l’ho orrendamente mutilato. La mia sensibilità me lo impedisce. Per la cronaca, gli ho solo tolto il cuore, perché mi rendeva inquieta, irrequieta, smaniosa e boccheggiante con quel suo soffocante, razionale, noioso, scontato, statico, infinito e inglobante amore: mi voleva togliere l’acqua, per adorarmi a suo piacimento in una gabbia d’oro!