L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco
La maledizione di René Magritte si è fatta carne e sangue sulle piazze italiane. Il suo “La Grande Guerra” non è più solo una tela, ma un’inquietante profezia che si manifesta con l’assurda violenza delle viole lussureggianti che soffocano un volto. Oggi, quelle stesse viole sbocciano velenose nel cuore pulsante della nostra democrazia, petali di silenzio calati su grida strozzate, in un’Italia che sembra aver dimenticato il sapore della libertà.
Milano, Teatro alla Scala, 4 maggio 2025. Non è stata una tragedia annunciata da bombe o malattie oscure, ma la morte civile di una ragazza di ventiquattro anni, consumata in diretta mondiale. La sua colpa? Due parole, urlate dal profondo della gola: “Palestina libera!”, pronunciate mentre il potere si adagiava nel Palco Reale. Il verdetto è stato fulmineo, spietato: licenziamento immediato. Non un richiamo, non una sospensione. Ma la morte professionale. Una logica glaciale e inappellabile: i simboli di libertà, di autentico dissenso, disturbano i potenti seduti in platea. I sindacati hanno levato un grido di scandalo, i giornali hanno documentato l’accaduto con dovizia di particolari, ma la macchina del castigo è rimasta inarrestabile, inesorabile.
Pochi giorni dopo, a Torino, un altro frammento di verità è esploso con la forza di una deflagrazione emotiva davanti al monumento di Emanuele Filiberto. Un vigile del fuoco, con un gesto che brucia la retina, ha strappato una bandiera palestinese. Per un istante infinito, l’ha lasciata danzare al vento tra le sue mani. Quell’immagine, così dolorosamente ambigua, si è impressa come un geroglifico indelebile dei nostri tempi: la rappresentazione fisica dello strazio di chi è costretto a eseguire ordini che lacerano l’anima, che squarciano la coscienza. Quel braccio alzato non era trionfo, ma disperazione muta tradotta in un movimento convulso.
Il morbo si espande, una marea nera che si propaga come petrolio sulle acque un tempo limpide della Penisola. Poliziotti che bussano alle porte, intimidendo, ordinando di rimuovere drappi palestinesi perché “disturbano il passaggio del Giro d’Italia”. Carabinieri che identificano un’eurodeputata, rea di aver esposto un pezzo di stoffa dai colori proibiti. Sindaci costretti a giustificare l’ardire di aver esposto bandiere sui palazzi comunali. Ogni gesto, una potenziale accusa. Ogni simbolo, un reato. Ogni differenza, una minaccia da estirpare con violenza chirurgica.
C’è un fetore nauseabondo di ipocrisia che appesta l’aria. La stessa nazione che innalza monumenti ai partigiani, che canta inni alla libertà con voce roboante, che si vanta della sua Costituzione antifascista, oggi trasforma vigili in becchini della libertà e teatri in tribunali dell’ortodossia. Quella ragazza della Scala non ha infranto alcuna legge, ha solo avuto l’ardire di spezzare l’incantesimo soffocante del conformismo. Quel vigile di Torino non ha compiuto un atto eroico, ma ha svelato la tragedia di chi deve scegliere tra la dignità e il pane, tra l’anima e la sopravvivenza.
Magritte ci aveva avvertito, la sua pittura un grido silente: quando i fiori coprono il volto, è perché qualcuno vuole cancellare l’identità, soffocare l’individualità. Quelle viole italiane nascondono oggi il volto provato di una studentessa licenziata, le rughe di stanchezza incise sul volto di un vigile strumentalizzato, le smorfie di dolore di chi vede svendere, un pezzo alla volta, i principi fondanti della Repubblica. Il bouquet della vergogna ha radici profonde, velenose: affonda nel terrore primordiale del dissenso, nella paura viscerale del diverso, nella comodità letale del silenzio complice.
L’Italia sta scrivendo il suo capitolo più buio a colpi di ordinanze repressive e licenziamenti esemplari, un monito agghiacciante per chiunque osi alzare la voce. Mentre i riflettori si accendono sui gesti simbolici, un rumore assordante, una distrazione calcolata, copre il suono delle bombe vere che continuano a cadere su Gaza. La censura, oggi, non ha bisogno di decreti o di leggi oppressive; fiorisce spontanea, come un cancro, quando un popolo dimentica che la libertà è come l’aria – ci si accorge della sua importanza solo quando comincia a mancare, quando il respiro si fa corto e la gola si stringe. Non lasciamo che questa sia la nostra storia.
ph Wikipedia