La recensione del Direttore Daniela Piesco
Palazzo Paolo V non era solo una location. Era un testimone di pietra. Oggi, mentre il sole era ancora forte su Corso Garibaldi, tra quelle mura che hanno visto secoli di storie e segreti, Emanuela Sica ha compiuto un atto sacro: ha restituito l’anima alle ombre.
“Memorie di una Janara” (Delta Tre Edizioni) non è una presentazione. È una resurrezione.
Non leggetelo. Sentitelo.
Sentite la carta sotto le dita come fosse terra umida di Campania.
Sentite il peso del manoscritto ritrovato dal bambino a “Li Pacci” – quel grido muto sepolto sotto le macerie del tempo.
Sentite il bruciore delle erbe medicinali nelle mani di una donna chiamata strega, il sapore amaro dell’ignoranza che l’ha condannata, il dolce della Janara offerto oggi quasi come un’ostia laica contro l’oblio.
Sica non scrive: evoca. Con tre parole-talismano:
Indagatore– perché vi chiederà di frugare nelle crepe della Storia ufficiale, nelle paure che ancora ci abitano.
Vero – perché vi mostrerà il volto livido della persecuzione, le ossa carbonizzate di chi sapeva troppo.
Magico – perché trasformerà la vostra percezione. Un albero non sarà più solo un albero. Una strega non sarà più solo una strega. Sarà una donna. Una ribelle. Vostra sorella.
Da dove nasce questo fuoco?
Dalle favole al focolare di una nonna?
Sì. Ma soprattutto dal rogo.
Dal rogo vero, storico, che ha divorato migliaia di donne colpevoli solo di conoscere le erbe, di curare, di pensare. Sica lo ha visto brillare negli archivi della caccia alle streghe mentre scriveva “Rosso Vdg”. Ha sentito il fumo negli occhi, la cenere in gola. Ha sentito il loro silenzio diventare un urlo dentro di lei.
“Dare voce a una per dare voce a tutte”. Non è uno slogan. È un giuramento di sangue e inchiostro.
Perché questo libro vi trafiggerà?
Perché non parla di streghe. Parla di voi.
Parla della paura del diverso che ancora ci abita.
Dell’istinto di condannare ciò che non comprendiamo.
Del coraggio di ribellarci alle gabbie – quelle di ieri come quelle di oggi.
Parla della Janara che è in ogni donna e in ogni uomo che ha sentito il morso dell’ingiustizia, che è stato marchiato, umiliato, incompreso.
E vi sfida: nascoste tra le righe, ci sono porte chiuse. Non sono un difetto. Sono un invito. Spalancatele. Usate la chiave della vostra intuizione, della vostra rabbia, della vostra sete di verità. La ricompensa? Scoprire che la “strega” eravate voi. Che la libertà che cercava è la vostra.
A chi arriva questo canto sciamanico?
Agli assetati.
Ai giovani (come Ginevra e Michele, figli dell’autrice e guide nel romanzo) che cercano avventure vere e storie che bruciano.
Agli adulti feriti dal mondo, che ritroveranno nel poema simbolico di Sica le proprie cicatrici, trasfigurate in bellezza.
Ai saggi, alle nonne e ai nonni che riconosceranno il calore del vernacolo, l’odore della terra, il suono antico di una verità che finalmente torna a casa.
È un libro che vi abbraccia diversamente, a seconda di chi siete. Ma vi abbraccia tutti. Non offre risposte. Accende fiamme di domande nel vostro petto.
La janara parla finalmente .
“Io sono il riflesso oscuro dell’anima umana…”
Queste parole, presentate oggi sotto gli affreschi di Palazzo Paolo V, non sono più solo inchiostro. Sono sangue che torna a scorrere.
Sono il lamento e al tempo stesso il canto di vittoria di tutte le donne cancellate.
Sica ha compiuto un miracolo laico: ha preso la memoria del dolore e l’ha trasformata in una forza viva, palpitante, necessaria.
Questo libro non si legge. Si subisce. Si assorbe. Si fa strada nelle vene.
Se passate per Corso Garibaldi, ascoltate.
Le pietre di Benevento, la città delle Janare, sussurrano una storia nuova.
Anzi, antichissima.
Finalmente vera.
Finalmente libera.
Memorie di una Janara non è un libro.
È il ritorno a casa di un’anima. Di mille anime.
Ed è un monito: chi cerca di bruciare la verità, non fa che darle più forza.
La cenere, alla fine, è il terreno più fertile.