L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco 

Sangue. Esplosivo. Un nome scolpito nel cemento del 23 maggio. Trentatré anni dopo, l’Italia indossa la maschera del lutto ma nasconde lo sguardo. Commemorare Falcone senza sfidare le mafie di oggi è come versare fiori su una fossa mentre si calpestano viventi.

Guardatevi attorno: questo è il paese che sopravvive al giudice. Dove un governo muto straccia i telegrammi da Gaza coi denti, mentre bambini senza volto diventano polvere sotto le bombe finanziate coi nostri silenzi e le bandiere strappate ai cortei diventano quella censura che Falcone avrebbe chiamato “concorso esterno in omertà”. Dove un premier donna mente sapendo di mentire con il beneplacito del popolo che resta indifferente alle sue menzogne . Non è forse mafia questa? È mafia del silenzio, la più letale.E quando fa politica tradisce le donne tagliando i fondi sulla ricerca del tumore al seno,azzerando le possibilità di abortire , inchiodando le coppie omosessuali alla clandestinità affettiva, proprio mentre la Consulta scrive “madri” al plurale su un certificato di nascita.

Ipocrisia con gli stivali.

E oltreoceano, la farsa si fa tragedia globale. Trump vuole imbrigliare Harvard in catene razziste, trasformando Platone in un manuale per ariani. Il Papa benedice famiglie di cartapesta, ignorando due donne che partoriscono rivoluzioni tenendo per mano una bambina.

Siamo tutti clandestini in questo mondo capovolto, dove avere coraggio è reato.

Falcone non è un’icona da processione. È un pugno nello stomaco che ci obbliga a scegliere: inginocchiarci o combattere. Legalità non è recitare poesie sulle macerie, ma strappare le tegole dai covi dei nuovi Corleonesi.

È votare quando ti ordinano di tacere. Denunciare quando ti offrono il compromesso. Amare quando ti impongono l’odio.

Quel Boeing esploso sulla via di Capaci trasportava una verità che ancora ci brucia: la mafia più letale non è quella che spara, ma quella che ti convince a non sentire il colpo. Che ti addestra a chiamare “normalità” l’ingiustizia. A mormorare “così fan tutti” mentre il male avanza.

Per questo oggi, mentre i telegiornali recitano il requiem di rito, dobbiamo strappare la memoria dalle mani dei retori. Falcone non chiede corone. Chiede complici. Chiede figli illegali della coscienza che rompano il giuramento del conformismo.

L’eredità è qui: in ogni scheda elettorale infilata con rabbia, in ogni abbraccio a chi chiamano “diverso”, in ogni aula universitaria dove s’impara a disobbedire.

Ricordare è un verbo per vigliacchi. Agire è l’unico monumento che non esplode.

Falcone non è morto. Muore solo quando abbassiamo la persiana. Quando preferiamo il lamento alla lotta. Quando dimentichiamo che l’Italia che uccise lui oggi uccide ancora , e noi siamo i giurati di questo processo.

L’ora è adesso. Di sventrare urne ai referendum come atti di disobbedienza civile. Senza scudi, senza mediazioni. Con le unghie, se necessario.Perché resistere non è un dovere. È un urlo di sopravvivenza.

 

pH Pixabay senza royalty

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.