L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco
Nel cuore delle Alpi, dove le cime separano e uniscono, dove i dialetti si mischiano con le memorie di due guerre, esplode un gesto. Non un urlo, non un proclama. Un gesto. Pochi secondi, una fascia tricolore poggiata con gesto quasi infastidito sulla scrivania del municipio di Merano. Catarina Zeller, nuova sindaca della città altoatesina, si sfila il simbolo dell’unità nazionale con una frase quasi di distacco: “Mettiamola via, dai”. E l’Italia – o almeno una parte di essa – si è sentita toccata, sbeffeggiata, tradita.
Non è vilipendio, dice la legge. Ma è davvero tutto qui?
Giuridicamente, lo sappiamo: vilipendio non è. L’art. 292 del Codice Penale tutela il tricolore da insulti espliciti, atti gravi e deliberati di disprezzo. Qui non ci sono né fiamme né sputi, né slogan osceni. Dunque nessun intento penalmente rilevante , Eppure, nel corpo dell’Italia civile, qualcosa ha bruciato.
Ma cosa rappresenta la fascia tricolore?
La fascia non è un accessorio da cerimonia, non è una sciarpa qualsiasi. È l’emblema tangibile della Repubblica, l’incarnazione visibile dell’articolo 5 della Costituzione: “La Repubblica, una e indivisibile”. Indossarla significa assumersi la responsabilità di rappresentare non solo una comunità locale, ma lo Stato nella sua interezza. Significa dire: io sono parte di questo patto, io ne sono custode, io lo onoro.
La sindaca Zeller ha spiegato che in Alto Adige il simbolo istituzionale è il medaglione con lo stemma comunale. È vero, ogni Comune ha il suo gonfalone. Ma nessuno, in oltre settant’anni di Repubblica, ha pensato di “mettere via” la fascia tricolore come fosse un intralcio, un fastidio. Non è questione di folklore o protocolli: è questione di appartenenza.
Cosa ha voluto dirci davvero la sindaca?
È stata solo una reazione d’istinto, come dice lei, o una vera e propria provocazione politica? Difficile non notare la coincidenza simbolica. Una neosindaca di madrelingua tedesca, sostenuta da una maggioranza che affonda le radici in una cultura autonoma e, spesso, distante dalla narrazione nazionale italiana, si libera del tricolore davanti a un predecessore italiano. Non c’è bisogno di urlare per lanciare un messaggio: a volte basta un gesto.
E a chi dice che “lì si parla tedesco”, si può rispondere: certo, ed è un diritto tutelato. Ma il tricolore non è la lingua: è il patto, la casa comune. Nessuno pretende che Zeller canti “Fratelli d’Italia” con la mano sul cuore. Ma chi assume una carica pubblica in uno Stato deve accettare anche i suoi simboli. Per coerenza. Per rispetto.
La questione vera: chi l’ha votata, cosa voleva dire?
C’è un’ampia fetta dell’elettorato che si è riconosciuta in Zeller. Non solo tedeschi, forse anche italiani stanchi della politica precedente. Ma il voto non è mai neutro, e chi viene eletto assume su di sé la responsabilità di unire, non di dividere. È qui che il gesto della sindaca – anche se non punibile – diventa discutibile. Perché ha mostrato distanza, freddezza, forse perfino fastidio, verso un simbolo che dovrebbe invece essere presidio di coesione.
Il paradosso finale: i soldi dello stipendio non sono forse italiani?
Il bilancio comunale, i trasferimenti statali, le risorse pubbliche, gli investimenti scolastici e infrastrutturali: tutto questo è impregnato dei colori del tricolore. Non si può “mettere via” ciò da cui si attinge. Non si può amministrare in nome del popolo italiano e trattare con sufficienza ciò che di quel popolo è simbolo sacro.
Serve più rispetto per l’Italia. Non per patriottismo cieco, ma per dignità condivisa.
Non si tratta di nazionalismo. Si tratta di cultura civica, di etica istituzionale. Di sapere che un simbolo, in democrazia, non è mai un pezzo di stoffa. È un ponte, non un ostacolo. È memoria, non burocrazia. E il gesto di Zeller, al netto della legge, ha aperto una ferita. Non irreparabile, ma seria.
E allora la domanda vera non è se ci sia stato vilipendio. La domanda vera è: vogliamo ancora credere che l’Italia sia una Repubblica una e indivisibile, fatta di diversità che convivono con rispetto, o vogliamo farci trascinare nel gioco delle identità contrapposte?
Il tricolore, quel giorno, non è stato bruciato. Ma è stato umiliato. E con lui, l’idea stessa di una casa comune.
Non è un dramma penale. È un cortocircuito simbolico.
È la crepa che si apre quando il gesto istituzionale smette di parlare il linguaggio del rispetto e comincia a somigliare a un’alzata di spalle.
Ma guai a chi riduce tutto a folklore, a chi normalizza lo sfregio con la retorica dell’autonomia o della spontaneità.
Perché senza rispetto per i simboli condivisi, non c’è coesione.
Senza coesione, non c’è cittadinanza.
E senza cittadinanza, resta solo l’identità chiusa, quella che esclude, quella che divide.
E allora sì, il tricolore resta sul tavolo.
Ma non come vessillo di un’Italia fragile, bensì come prova di resistenza.
Resistenza alla disattenzione.
Resistenza all’indifferenza.
Resistenza all’idea che tutto possa essere ridotto a una provocazione da dimenticare.
Perché un simbolo si può anche poggiare.
Ma non si lascia indietro.
Non se si ha davvero intenzione di servire un Paese.
Non se si ha davvero il coraggio di rappresentarlo.
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