Di Daniela Piesco Direttore Responsabile
Benevento – Nella notte del 17 maggio, il Teatro Romano di Benevento ha vissuto una resurrezione epica, trasformandosi in un tempio di memoria e bellezza durante la Notte Europea dei Musei. Non una semplice apertura serale, ma un rito collettivo in cui pietre millenarie hanno ritrovato voce, guidate dalla sapienza visionaria di Ferdinando Creta e incantate dalle melodie celesti del flauto di Carlo Mazzarella . Un evento che ha superato l’aspettativa di una visita, diventando un atto d’amore per la verità storica e un inno all’eternità dell’arte.
Con la maestosità di un aedo moderno e il rigore di uno storico guerriero, Ferdinando Creta ha compiuto un prodigio: ha restituito anima a un monumento troppo spesso imprigionato in definizioni riduttive. La sua guida non è stata una lezione, ma un’epopea. Parola dopo parola, ha smantellato decenni di fraintendimenti, liberando il teatro dalla gabbia di “anfiteatro” per riportarlo al suo splendore originario: luogo di civiltà, di parole sussurrate a migliaia, di battaglie culturali combattute con la forza del dialogo.
Le sue mani, sollevate come a scolpire il tempo, hanno ridisegnato archi e cavee. Ogni gesto un colpo di scalpello contro l’oblio, ogni aneddoto una pennellata di colore su un affresco dimenticato. Creta non ha solo raccontato il teatro: lo ha resuscitato, trasformando i visitatori in testimoni di una verità storica ribelle, orgogliosa di essere finalmente svelata. La sua narrazione, un incrocio tra un thriller archeologico e un poema epico, ha fatto vibrare l’aria come un coro antico: qui non si combattevano belve, ma si elevavano pensieri.
Mentre il crepuscolo avvolgeva il teatro in un manto di mistero, le note del flauto di Carlo Mazzarella hanno compiuto un sortilegio. Non semplici melodie, ma gridi silenziosi di un passato che bussa alle porte del presente. Ogni suono, modulato con alchimia da virtuoso, sembrava nascere direttamente dalle viscere del teatro, come se le stesse pietre avessero preteso di cantare.
Le sue composizioni, sospese tra classico e ancestrale, hanno tinto l’aria di pathos. Notturni che evocavano i lamenti delle Menadi, ritmi che riecheggiavano i passi dei gladiatori del pensiero. Mazzarella non ha suonato davanti al teatro, ma con il teatro, in un dialogo mistico tra artista e architettura. Il flauto, prolungamento della sua anima, ha trasformato lo spazio in una cassa di risonanza cosmica, dove ogni vibrazione accarezzava i volti scolpiti nel tempo.
Illuminato da una luna complice e da proiettori che ne esaltavano la maestà geometrica, il teatro si è rivelato non come reliquia, ma come protagonista assoluto. Le sue gradinate, un tempo gremite di cittadini assetati di tragedie, hanno ritrovato per una notte il calore di un pubblico rapito. I marmi, levigati dai secoli, brillavano come lacrime di dei, mentre gli archi trionfali si ergevano a guardiani di un segreto finalmente svelato.
Qui, tra colonne che sfidano la gravità del tempo, Creta e Mazzarella hanno tessuto un arazzo di significati: l’uno ridando voce ai muri, l’altro sangue alle vene di pietra. Insieme, hanno dimostrato che un sito archeologico non è un cadavere da studiare, ma un organismo che respira se interrogato con arte e devozione.
La magia non è stata nell’illuminazione o negli effetti speciali, ma nella simbiosi tra competenza e genio artistico . Creta, sacerdote della storia, e Mazzarella, sciamano del suono, hanno orchestrato un rito laico in cui passato e presente si sono fusi in un eterno hic et nunc.
Il Teatro Romano di Benevento, spesso oscurato da gemme più celebrate, ha scritto in questa notte un nuovo capitolo della sua esistenza. Grazie a chi ha creduto che la cultura non sia polvere, ma fuoco, ha dimostrato di essere non un reperto, ma un faro. Un luogo dove ogni pietra è sillaba di un poema infinito, e dove la musica non è accompagnamento, ma linguaggio universale dell’anima.
Questa Notte Europea dei Musei non ha solo valorizzato un sito: lo ha consacrato. E in questa consacrazione, Creta e Mazzarella sono stati i sommi sacerdoti di una religione senza dogmi, dove l’unico credo è la bellezza che resiste, raccontata, suonata, vissuta.