di Mary Grace Ovedi

MORTE TRA LE STELLE”
una raccolta di racconti noir dedicata al lato oscuro dei Segni dello Zodiaco

L’idea, all’inizio, era nata quasi per gioco, buttata lì tra una risata e un’altra, per stuzzicare un po’ la vanità e l’amor proprio dei presenti. Una sfida più che altro psicologica, perché nessuno poi pensava veramente, almeno all’inizio, di metterla in pratica e cimentarsi in un’impresa impegnativa, ardua e difficile come quella che avevano messo in posta.
Erano un gruppo di amici, assortiti tra le più svariate tipologie fisiche e caratteriali e, proprio per questo motivo forse, amici di lunga data, ognuno con le sue debolezze e i suoi punti di forza che nell’insieme tendevano appunto a concretarsi in una compensazione totale.
C’era Tony, un ragazzone un po’ su di peso, lento, pacioso, tranquillo, ma allegro e spiritoso all’occorrenza.
C’era Adrian, un po’ introverso, sognatore e romantico, non intraprendente ma, anche se gregario, altruista e sempre pronto a collaborare nelle imprese più imprevedibili pur di non deludere i suoi amici.
C’era Virgil, preciso, puntiglioso, ordinato, forse quello che apparentemente aveva più punti in comune con Cornel che pure, a modo suo, era preciso, serio, corretto ma con in più una punta d’orgoglio e di ambizione e una determinazione che gli altri nemmeno sognavano potesse esistere.
C’era infine Joe, che era anche lui un personaggio tutto dire: un tipo istintivo, frettoloso, un sorvolatore di particolari e dettagli, un supponente, insomma uno di quelli che ritengono di sapere tutto, pretendono di fare tutto e lo fanno di conseguenza fretta e male, per non dire catastroficamente.
Il gruppo era così assortito che c’era da chiedersi come avessero potuto coltivare e mantenere un’amicizia per tanti anni, visti i grandi contrasti caratteriali che spiccavano in loro.
Ma anche questo non era poi un gran mistero perché i cinque si conoscevano sin da bambini; erano cresciuti insieme, avevano frequentato le stesse scuole, vivevano tuttora in una piccola comunità, un villaggio di montagna non troppo lontano ma neanche troppo vicino alla città, ed avevano imparato ad accettarsi a vicenda, ognuno con i propri pregi e i propri difetti. E ne avevano fatto una compensazione totale, un mutuo soccorso. Almeno fino a quel giorno.
Quel giorno, scherzando scherzando, era successo qualcosa. Era scaturita una sfida, cosa che goliardicamente era già avvenuta diverse volte tra i cinque amici, ma stavolta più impegnativa, da adulti: una sfida che andava a toccare le corde più intime di ciascuno di loro, per un motivo o per un altro. Una sfida che li spaventava, ma che assolutamente, si dovettero rendere conto pian piano, non potevano non accettare.
L’amor proprio, l’orgoglio, la fantasia, l’inventiva, l’ambizione entravano in gioco. Molle diverse che scattavano con forza così che ognuno di loro si sentiva talmente spronato e punto nel proprio più recondito “ego” da non poter far finta di non essere interessato e disattendere l’invito.
Tony, per esempio, per una questione fisica: lui era su di peso, nonostante tutti gli sforzi che faceva per attenersi ad una dieta equilibrata. Purtroppo erano gli spizzichini continui che si concedeva, quel dover masticare, ruminare, ciancicare qualcosa in continuazione, quando la sua bocca era in stato di silenzio – perché l’alternativa sarebbe stata parlare a ruota libera – che lo appesantivano e gli rovinavano la sua bella linea e lo rendevano lento e goffo nei movimenti. Ma questa frenesia sembrava essere per lui una esigenza quasi vitale, perciò così difficile da ignorare.
No, non si sarebbe tirato indietro. Gliela avrebbe fatta vedere ai suoi amici criticoni: nonostante la sua stazza sarebbe riuscito nell’impresa e anche molto meglio di loro. Dalla sua aveva una volontà incrollabile e due spalle larghe da non sottovalutare: due doti che lo avrebbero avvantaggiato e gli avrebbero fatto superare l’handicap del suo peso.
Anche per Adrian era impossibile rifiutare una sfida del genere. Stuzzicava la sua fantasia romantica e cavalleresca d’altri tempi. Rappresentava l’occasione per mostrare l’eroe che albergava in lui, fosse anche il piccolo paggio d’accompagno, però sicuramente utile e indispensabile per il buon esito di tutta l’impresa.
Virgil, preciso, sistematico, ordinato, si sentiva il più idoneo a portare a termine la sfida. Lui studiava ogni particolare, aveva metodo e tecnica di inquadramento mentale e non aveva alcun dubbio di riuscire a superare i suoi compagni e primo fra tutti Joe che, così irruento, istintivo e superficialmente supponente, non sarebbe stato, a suo avviso, neanche in grado di iniziare l’opera. Avrebbe fatto una tale confusione e un tale casino con la sua partenza affrettata e non organizzata che avrebbe perso alla partenza.
Dal canto suo Joe, invece, si sentiva così sicuro ed elettrizzato d’esser certo di dare una pista a tutti. Gli altri, i suoi amici, erano così lenti, così puntigliosi, così dispersivi, così pesanti, così estremamente conformisti e pedissequi da perdersi in mille rivoli e in mille particolari senza riuscire più a vedere l’unica cosa che veramente contava nelle sfide, e cioè l’obiettivo finale. Lui l’avrebbe raggiunto velocemente e senza sforzo, perché era agile e pieno di idee estemporanee.
C’era infine Cornell. Fra tutti era il più serio, il più impenetrabile. Esteriormente emanava freddezza, controllo di sé, distacco, orgoglio.
Riserbo ed un certo alone di solitudine incombevano sulla sua persona, per quanto, per minimizzare, riusciva anche ad essere uno spiritosissimo animatore di quel gruppo, seppure tagliente e sarcastico, critico e censore, osservatore di ogni debolezza comportamentale altrui e pronto a trasformarla in ilarità per gli altri (ma spesso suscitando il rancore del soggetto preso di mira).
Quello che i suoi amici ancora non avevano capito di lui, e soprattutto imparato a temere di lui, era la sua ambizione. Era mostruosamente determinata e coriacea, indistruttibile, combattiva e annientante laddove il raggiungimento della sua mèta fosse stato considerato per lui indispensabile. E l’ambizione di Cornell, appena appena assopita nella quotidianità di quel luogo tranquillo, quasi bucolico, dove tutto il conquistabile era già stato conquistato da lui che, ovviamente, occupava la posizione sociale più elevata del gruppo, s’era messa subito in fervente attività.
Per gioco era dunque scaturita una nuova sfida, che rappresentava però una mèta da raggiungere, un’occasione per sottolineare la sua superiorità, la sua tenacia, la sua determinazione, la sua perseveranza, la sua resistenza, il suo rigore, la sua stabilità e la sua volontà: una sfida da cui uscire vincitore, una sfida per impressionare gli altri ed ottenere un ulteriore riconoscimento dei propri meriti e aumentare il suo prestigio.
Era fin troppo scontato che con le sue doti avrebbe vinto lui.
E poi conosceva bene i suoi polli, cioè i suoi amici. Sapeva come farli fuori, come eliminarli dalla gara, ritorcendo contro di loro gli stessi loro difetti, i punti deboli, quelli sui quali sarcasticamente tante volte aveva ironizzato. In guerra, come in amore, tutto è lecito!
In amore non aveva mai messo in pratica questa “massima” perché non era un tipo passionale e non aveva mai provato il grande desiderio di conquistare ed avere una donna tutta per sé, ma in guerra era diverso. Guerra in questo caso significava vittoria, prestigio, soddisfazione, realizzazione della sua ambizione, raggiungimento di un grado ancora più elevato rispetto agli altri: lui avrebbe fatto di tutto, si sarebbe arrampicato con le unghie e con i denti pur di arrivare in cima per primo e vincere la sfida.
La sfida, infatti, consisteva nel raggiungere la vetta della montagna.
Poteva sembrare, detta così, un’impresa da poco, ma in realtà la montagna costituiva un osso duro da mordere, con pareti quasi a strapiombo frammezzate da tratti con strati friabili, soggetti a frane improvvise. Non era altissima e non era coperta di neve, ma si stagliava superba ed apparentemente irraggiungibile nel cielo azzurro e terso della primavera.
La sfida era scaturita dal nulla, o meglio dalla noia, dal non avere niente da fare di nuovo, di diverso, dall’esaurimento di ogni altra attività, sportiva e non, che il villaggio poteva permettere ed ispirare a dei baldi giovanotti.
Avevano disputato, nel corso degli anni e nei vari stadi della loro età, per puro divertimento e goliardicamente, le più svariate gare: da quelle di pesca, di caccia, di raccolta funghi, di caccia al tesoro, a quelle di sopravvivenza nel bosco, di nuoto, di corsa, di resistenza all’alcool, alla birra, alle torte ai mirtilli, e anche le gare con le bici e poi con le macchine e persino le gare con i sacchi ai picnic: insomma, tutto quello in cui ci si poteva cimentare in un luogo come quello in cui vivevano.
Ed ora la montagna. Li chiamava, li sfidava, li metteva alla prova, forse per la prima volta, sul serio.
Faceva paura proprio perché non era più una sfida da ragazzi. Era un’impresa da adulti, con i suoi pericoli, i suoi rischi, le sue difficoltà, le sue incognite. Un’impresa in cui si sarebbero dovuti impegnare con tutte le loro forze e le loro risorse, per non sfigurare e soprattutto per non rischiare di soccombere.
Nessuno avrebbe potuto contare sull’aiuto dell’altro, perché ognuno partecipava per vincere. Questi almeno erano i presupposti e le regole. Poi, ovviamente, nessuno poteva prevedere in che modo si sarebbe evoluta la gara, le difficoltà che avrebbero incontrato, i pericoli imprevisti, lo spirito di solidarietà e di umanità che sarebbero scattati in caso di necessità e di emergenza.
Insomma, tutti erano consci della serietà della sfida, della sua difficoltà ma, come detto, erano altrettanto consapevoli di non potersi più tirare indietro: troppo forti le motivazioni interiori e le spinte psicologiche di ciascuno.
“Fino alla morte” era il loro motto fin da ragazzini, un bel po’ esagerato e teatrale, certo, degno degli scapestrati monelli che erano stati ma mai come adesso suonava sinistro e premonitore mentre, tutti insieme, levando i boccali di birra suggellavano la loro accettazione alla nuova, grande sfida.
Forse perché ormai erano adulti e avevano imparato il significato della parola “morte”.
* . * .* . *.
Come era prevedibile, il primo a sperimentarne sulla sua pelle e sulla sua anima il significato letterale, fu proprio Joe.
La sua supponenza, la sua superficialità innata, la sua fretta di partire e di arrivare, la sua faciloneria, l’istintività basata e supportata solo dalla sua agilità e dalla estemporaneità di idee brillanti, non furono sufficienti a salvargli la vita.
Era partito in quarta, lasciandosi tutti gli altri alle spalle, arrampicandosi come una gazzella, leggero e veloce. Ma alla prima difficoltà, sprovvisto com’era di ogni qualsivoglia attrezzo o strumento idoneo all’impresa, non potendo più trovare appiglio alcuno su quella roccia liscia e ripida, se ne andò giù a picco improvvisamente sotto lo sguardo incredulo degli altri quattro amici che, più lungimiranti e sicuramente meglio attrezzati, lentamente stavano procedendo e superando quel primo tratto, relativamente meno difficile del restante percorso.
Rimasero tutti e quattro immobili e nessuno riuscì ad intervenire; chi perché troppo lontano, chi perché in difficoltà lui stesso, chi perché troppo assorto nel suo procedere, chi perché troppo egoisticamente ambizioso per tentare di aiutare un concorrente.
Anche se ovviamente Joe era l’unico che non gli avrebbe dato del filo da torcere, Cornell non poté comunque fare a meno di pensare “uno di meno da battere!” quando lo vide cadere giù, nonostante Joe fosse suo amico di lunga data.
Con una freddezza che fino a quel momento non aveva mai raggiunto, pensò: – La guerra è guerra: ovvio, se non addirittura prevedibile, che i deboli ed i supponenti, quelli che non pensano prima di agire, i superficiali, periscano per la loro propria inettitudine. Non è certo colpa mia! –
Solo pensieri freddi e critici e duri attraversavano la mente di Cornell mentre continuava la sua ascesa.
Adrian, il più sensibile, a gran voce supplicava di andare ad aiutare Joe, di smettere immediatamente con quella pazza sfida, supportato subito dopo anche dalle richieste di Tony e di Virgil ma Cornell, dalla sua spanna più in alto, ricordava loro il motto “fino alla morte” e ordinava di non dimenticare le regole. E poi, mentendo, li rassicurava sul fatto che Joe era solo lievemente ferito perché lui, dalla sua posizione, lo vedeva muoversi. Quindi riprese l’ascesa e gli altri, soggiogati dal suo carisma, non poterono far altro che continuare anch’essi.
Ultimo della scalata, Tony, nonostante le sue grandi spalle e la sua grande forza di volontà, comunque arrancava e faticosamente riusciva a mantenere la posizione raggiunta. La sua mole, la sua pressione alta e la parete ripida erano proprio incompatibili tra loro! E poi, vista da vicino, la montagna era ancora più ostile, altezzosa, scarna e repulsiva di quanto apparisse da lontano e non offriva sufficiente appiglio per un momento di pausa, di riposo, neanche a chi, come Tony, era paziente e calmo, osservatore e riflessivo. E così, dopo aver osservato e riflettuto, lì sul posto, attaccato con corda e chiodi, allo stremo della sua resistenza fisica, arrivò alla conclusione che non ce l’avrebbe fatta. Doveva ritirarsi. Era umiliante dover rinunciare e soprattutto ammettere il suo limite fisico, quell’eccesso ponderale suo grande handicap e frustrante complesso di inferiorità da ormai troppo tempo, ma non poteva proprio fare altrimenti.
Chiamò Adrian, di poco più in alto rispetto a lui, e gli comunicò la sua intenzione di ritirarsi.
Adrian, per carattere altruista e disponibile ad aiutare il prossimo, come uno scudiero pronto a donare anche la sua vita per il suo paladino, si offrì di tentare di tirarlo un po’ più su, fino ad una parte più accessibile della roccia, fino ad un punto d’appoggio più stabile.
Ma Adrian era tutto cuore e pochi muscoli: nell’intento di aiutare l’esausto Tony (che nel frattempo stava inesorabilmente scivolando via dai suoi precari appigli) perse i suoi punti d’appoggio e, dopo un lunghissimo momento in cui i due si trovarono sospesi nel vuoto, ancora attaccati alla roccia grazie ad un solo gancio, tra l’altro vicinissimo a Cornell che avrebbe potuto rafforzarlo con un solo deciso colpo di martello, precipitarono assieme lì dove già il loro compagno ed amico Joe li aveva preceduti.
Alle loro grida si voltò e guardò giù anche Virgil, che era quello più avanti in quel momento, nella scalata.
Alle sue mute domande, al suo sguardo attonito, Cornell rispose di non aver potuto fare nulla per aiutarli. Ma i suoi occhi brillavano di una strana luce, d’un luccichìo di vittoria piuttosto che di una lacrima di dolore. “Altri due che si sono autoeliminati”, era il pensiero elettrizzante che accendeva quello sguardo.
Avrebbe vinto senz’altro lui la sfida. Tony era stato l’unico vero valido rivale, con la sua grande forza di volontà. L’aveva dimostrata tante volte in precedenti occasioni e lui lo aveva ammirato e temuto per quella forza. Sarebbe stato duro se Tony fosse stato in piena forma doversi fronteggiare con lui per la conquista della vetta: invece, senza fatica e senza alzare un solo dito per fermarlo, semplicemente stando a guardare, se lo era tolto dai piedi ed ora la via era sgombra: sarebbe stata una facile discesa, invece che una ripida salita, arrivare in cima.
Adrian, lo conosceva bene, era un gregario. Non avrebbe neanche provato a battersi per la vittoria. Si sarebbe messo da parte e avrebbe fatto strada a chi avesse mostrato un po’ di determinazione, di iniziativa, di coraggio. Peccato che fosse morto, era sempre stato una persona su cui contare per un aiuto. Ma la guerra è guerra, giustificava ogni mezzo ai suoi occhi, anche un sacrificio inutile!
Ora era rimasto solo Virgil. Ma Virgil, pure così metodico, così preciso, così attento ad ogni particolare, ad ogni alito di vento, lo avrebbe battuto in freddezza, scaltrezza e in perseveranza, in resistenza. Doveva solo attendere il momento più propizio. E lui, Cornell, sapeva attendere, senza scomporsi, senza esteriorizzare le proprie emozioni.
La sua ambizione, la sua voglia di mostrarsi superiore, la sua grande necessità di ottenere il riconoscimento assoluto del suo prestigio, era cresciuta a dismisura durante quella scalata. La sentiva come la sfida suprema, la più importante, la più determinante, la sfida finale “fino alla morte” proprio come recitava il loro motto.
I suoi amici più cari erano sicuramente morti, ma tanta era la sua euforia per aver battuto dei rivali che il fatto contingente e reale della morte, della “loro morte”, sembrava non sfiorarlo.
Nella sua mente e nelle sue azioni contava solo la mèta, solo la cima della montagna, solo la vittoria.
Virgil, preciso e attento, procedeva metodicamente con buona tecnica, apparentemente concentrato nel suo lavoro e nel suo percorso. Silenzioso stava analizzando, con la sua puntigliosa razionalità, quello che era successo. Non era possibile che Cornell, dal punto in cui si trovava, non avesse potuto fare niente per salvare, o quanto meno tentare di trattenere, Adrian e Tony. Li aveva deliberatamente lasciati cadere e altrettanto deliberatamente aveva ingannato tutti loro sulla sorte di Joe. Anche Joe doveva essere morto…
Adrian, Tony e Joe erano morti! Era terribile! Era incredibile!
Per una sciocca sfida, per una inutile sfida! Non avrebbero mai dovuto accettare. Non avrebbero mai dovuto lasciarsi tentare da Cornell. Lui era diventato sempre più freddo, apparentemente incapace di provare emozioni. Lui badava solo alle cose strettamente materiali passando sarcasticamente sopra a tutto come un carro armato; non sembrava avere sentimenti, né sensibilità, né riguardi per nessuno. Era lui, Cornell, che li aveva sfidati, non la montagna! Ancora una volta aveva voluto mostrare a tutti chi fosse il più forte, il più intelligente, il più perseverante, in una parola il più “grande”!
Così aveva fatto sempre, da bambino e poi da ragazzo, usando tutte le armi lecite e non lecite pur di vincere, barando e graffiando e scalciando. Lo stava facendo ancora!
Ma questa volta non glielo avrebbe permesso. Per una questione di equità e di giustizia, di equilibrio e di compensazione. Lo avrebbe ridimensionato, lo avrebbe battuto, lo avrebbe umiliato, lo avrebbe declassato. Questo non solo per se stesso, per il suo orgoglio personale, ma per tutti i suoi amici e per tutti i bocconi amari, le sconfitte e le scorrettezze che tutti loro avevano dovuto subire, ora che se ne rendeva conto, da sempre. Per tutte le angherie, le ironie e i soprusi con cui Cornell li aveva di fatto sottomessi pur di essere il primo, il migliore, il più.
Avrebbe vendicato tutto e tutti se si fosse concentrato nella salita. Era lui in vantaggio in questo momento. Aveva il coltello dalla parte del manico. Doveva sfruttare bene la situazione e non lasciarsi sopraffare né da timori, né da rimorsi, né da ripensamenti.
Avrebbe fatto in modo che Cornell, seguendo i suoi passi nella scalata, si servisse di un appiglio fasullo, posticcio. Gli avrebbe reso pan per focaccia, ripagandolo con la sua stessa moneta: lo avrebbe spedito dritto dritto lì dove Cornell aveva spedito gli altri. Sarebbe morto della stessa morte degli altri. Sì, gli sembrava molto equo.
Ingarbugliata tra gli altri suoi accalcati pensieri di vendetta, distorti dalla rabbia, dal dolore, dalla frustrazione, quest’ultima considerazione gli sembrò la risposta divina: la ristabilizzazione dell’equilibrio, la compensazione, il riscatto per sé e per i suoi amici, di cui sarebbe stata testimone, giudice e boia la montagna stessa.
Preciso e attento, ma forse ora, così preso dalle sue farneticazioni, meno preciso, meno attento, meno meticoloso del necessario, procedeva velocemente, per non farsi superare da Cornell e perdere così la sua occasione, e vorticosamente con il pensiero e con le mani attaccava chiodi, troppi chiodi sulla roccia. La logica, la razionalità, gli dicevano che Cornell non ci sarebbe caduto mai, che si sarebbe accorto delle sue trappole, che le avrebbe evitate, ma continuava comunque perché la “giustizia divina” passava per quel percorso.
Purtroppo per lui, però, quella certezza, quella consapevolezza, subdolamente lo ingannava e lo tradiva esponendolo a passi falsi e a manovre affrettate e maldestre.
Cornell, da parte sua, si stava godendo la scena.
Lo sapeva che era questione di tempo e di freddezza: Virgil stava crollando. I suoi nervi stavano cedendo, si stava muovendo troppo in fretta e male. Piantava maldestramente i suoi chiodi e la sua salita era disordinata. Prima o poi un gancio avrebbe ceduto e Virgil avrebbe fatto la fine degli altri.
Cornell doveva portare ancora un po’ di pazienza e il vincitore assoluto sarebbe stato lui.
Non lo sfiorava neanche l’idea che Virgil stesse preparando quel terreno per lui, per costringerlo ad un passo falso.
Sicuro di sé, avanzava rapidamente sfruttando, perché no, alcuni dei ganci piantati da Virgil, quelli che ovviamente gli sembravano più sicuri, dopo averli comunque
rinforzati con un colpo di martello.
Esattamente quello che Virgil si aspettava e sperava lui facesse. Alcuni di quei chiodi – e qui era la trappola – erano sicuri solo se piantati superficialmente sulla roccia solida. Se ribattuti andavano a conficcarsi su strati friabili che se opportunamente sollecitati, avrebbero anche potuto sgretolarsi e staccarsi in grandi falde.
Virgil se lo aspettava da un momento all’altro mentre con l’orecchio teso e i nervi ancora più tesi cercava di distanziare il più possibile Cornell, per non rimanere lui stesso coinvolto nella frana.
Cornell, deciso, incrollabile, instancabile, lo seguiva ormai a breve distanza. Stava guadagnando terreno, lo raggiungeva, senza peraltro che quanto Virgil aveva premeditato si verificasse. Ormai erano vicini.
Uno sguardo intenso tra i due evidenziò e chiarì ad entrambi, se pure ancora ce ne fosse stato bisogno, la loro reciproca emozione.
In quello di Cornell, dardeggiava follemente la maliziosa scaltrezza di chi sa già di avere messo le mani sul bottino e se la ride e se la gode degli sforzi e degli insuccessi altrui.
In quello di Virgil abbagliava preoccupantemente l’esaltazione della giustizia divina, l’estasi del vendicatore che unico, invincibile e predestinato sa di riportare l’equilibrio nel mondo.
Sguardi, in altre circostanze, insostenibili.
Sguardi che non ammettevano chances, che non lasciavano possibilità di scampo. Uno scontro all’apice, tra sguardi paradossalmente ciechi, tra la cieca ambizione e la cieca giustizia. Sguardi da duello “fino alla morte”.
Sguardi che sorpresero entrambi per la loro sinistra e nefasta potenza e che li scossero e li turbarono e li inquietarono privandoli, per un momento, delle proprie forze e del proprio equilibrio mentale.
In quell’attimo di debolezza, bastò un passo falso e Virgil, scivolando, si ritrovò per puro miracolo riagganciato ad un precedente appiglio, che guarda caso era proprio uno di quelli “a trappola” predisposti per Cornell.
In quello stesso istante anche Cornell, nel ritrarsi istintivamente a seguito della scivolata scomposta di Virgil, si ritrovò spiazzato e scivolò lui stesso indietro verso un altro appiglio.
In bilico, sospesi, ognuno cercò di aggrapparsi con tutte le forze alla roccia, con i piedi, con le mani e con la mente, in cerca di una presa più stabile e più sicura, in cerca di una possibilità di salvezza dall’abisso che improvvisamente li reclamava entrambi.
Ma, ineluttabilmente, si ritrovarono a scivolare giù, sempre più giù, sempre più velocemente, uno dietro all’altro, a valanga.
Virgil verso dove purtroppo lo attendevano, non vendicati, i suoi amici Joe, Adrian e Tony. E Cornell, nonostante la sua più tenace, perseverante, determinata, caparbia, ostinata, strenua e disperata resistenza, verso un acuminato spuntone sul quale rimase in bella vista infilzato.
La montagna, testimone, giudice e boia, aveva voluto così premiarlo con il posto d’onore, il più prestigioso, il più in vista, il più ambito per le sue incontroverse, ampiamente dimostrate e di sicuro insuperabili doti di insensibilità, egoismo, arrivismo, cinismo e soprattutto sfrenata ambizione.

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