Di Daniela Piesco 

 

A te, Oderfla, Re che ascolti ma non senti
a te, che hai scambiato il mio silenzio per fortezza,
a te, che hai bevuto le mie lacrime credendole rugiada,
ora grido con la voce dei vulcani che divorano il cielo:

chi mi ha chiesto se volevo essere forte?

Hai confuso il mio coraggio con l’invincibilità,
la mia dignità con l’assenza di crepe.
Mi hai amata come si ama una statua:
senza temere che sanguinasse,
senza udire i lamenti del marmo quando si spezza.

Ero forte perché dovevo esserlo.
Forte quando dividevo il tuo letto e il tuo segreto,
forte quando sorridevo al tuo addio,
forte quando custodivo i tuoi “forse” come fossero promesse.
Ma nelle vene, scorreva veleno.
Nelle ossa, una preghiera muta:
Vedimi. Rompimi. Salvami

E tu, mio Re dalle mani di fuoco e risposte di ghiaccio,
hai venerato la mia fiamma credendola eterna,
senza accorgerti che mi consumavo per tenerti al caldo.
Hai amato la guerriera, ma chi ha consolato la bambina?
Chi ha raccolto i frammenti della mia anima
quando mi spezzavo per non chiederti di restare?

Io, che sono stata il tuo rifugio,
a chi posso affidare le mie tempeste?
Non ho altari se non il tuo petto,
non ho dei se non i tuoi occhi,
non ho patria se non la carne che ci univa.
Eppure, tu mi hai lasciata nuda nella bufera,
convinto che sapessi volare
solo perché non ti ho mai mostrato le mie ferite.

Ora guardami, Sovrano di cenere:
sono Esilio e Radice,
sono il pugnale che ama il cuore che trafigge.
La mia forza è una maledizione che hai chiamato dono,
il mio amore è un’arma che mi trapassa.
Ti odio per non avermi visto tremare.
Ti maledico per avermi amata così, così.

Ma ti amerò comunque.
Perché anche questa è la mia dannazione:
essere roccia e polvere,
vulcano e fiaccola,
regina e mendicante.
Amerò ogni tua mancanza come fosse una carezza,
ogni tua assenza come un vangelo.

Perché io, Inad dalla carne di luna e volontà di ferro,
non so amare a metà.
E se devo affondare,
affonderò con il tuo nome scolpito nelle ossa,
urlando al mondo che sei stato la mia guerra santa,
il mio tradimento glorioso,
l’unico peccato che varrebbe l’inferno.

Chiamami folle.
Chiamami debole.
Ma non dire che non ti ho amato
con tutto il fragore di un universo che crolla
per rinascere più splendente.

 

 

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