MORTE TRA LE STELLE”
una raccolta di racconti noir dedicata al lato oscuro dei Segni dello Zodiaco
Sprofondato nel sofà, davanti al televisore acceso, Dario avrebbe potuto sembrare semplicemente appisolato se non fosse stato per l’audio dell’apparecchio, decisamente troppo alto per conciliare il sonno persino per un ghiro in letargo.
Era strano vederlo così inerme, assente e immobile in quel frastuono, ma forse il programma in onda era irresistibilmente soporifero e il povero Dario, forzato lì davanti ormai da ore, da giorni, da settimane, sopraffatto dalla noia, era evaso verso un altrove più interessante, un altrove dove appunto l’audio di quel programma insensato non aveva parimenti senso alcuno.
Lui non era esattamente il tipo “poltrona-pantofole-TV” ma, di tanto in tanto, per pura sfortuna, si ritrovava costretto in quella routine, come dentro a una camicia di forza, senza possibilità di scampo.
La sua camicia di forza aveva l’aspetto, la struttura e la consistenza dell’ingessatura. Questo era infatti il suo problema, o per meglio dire, il suo punto debole: i suoi arti, in particolare le sue gambe.
D’altronde non c’era troppo da meravigliarsene, dal momento che, essendo Dario un incallito e inguaribile “CENTAURO”, le esponeva frequentemente ad incidenti che portavano a quel genere di conseguenze.
La passione per le moto era nata con lui, gli scorreva nelle vene assieme al sangue, faceva parte della struttura del suo DNA, batteva in sincrono con il suo cuore e ragionava all’unisono con le sue cellule grigie.
Nonostante le numerose cadute e fratture che annoverava e vantava al suo attivo – dal momento che ormai, data la sua fragilità ossea, era addirittura calamitato verso gli incidenti più banali – non poteva proprio farne a meno di quella passione: il montare in sella alla sua moto e andare lo gratificava come nulla al mondo, anche se poi, quasi immancabilmente, si trovava costretto, come adesso, all’immobilità praticamente assoluta per un mesetto o due.
Quello che più lo deprimeva dei riposi “forzati” chiaramente era il non poter far nulla o quasi tutto di ciò che più l’appassionava.
I suoi interessi erano poliedrici, ma presupponevano una buona forma fisica, e così, dopo aver letto qualche pagina di un buon giallo classico, parlato con gli amici al telefono – tutti in partenza per le ferie estive, ovviamente, – goduto della compagnia dei suoi fedeli animali, una coppia di magnifici soriani, come ultima spiaggia non gli restava che la televisione, amica e nemica dei lunghi momenti di forzata solitudine.
Amica adorata quando gli apriva orizzonti, porte sull’altrove, verso epoche e luoghi lontani, quando lo faceva viaggiare e spaziare con la mente e con i sensi, quando, come con la sua moto, lo portava lungo percorsi sferzati dal vento e gli faceva sentire sulla pelle l’ebbrezza e la potenza del viaggio, dell’andare, dell’aspettativa, della sfida e della conquista.
Il suo equilibrio, la sua felicità, la sua vita, vertevano e si nutrivano di questo continuo evolversi degli eventi e dei luoghi, delle esperienze e delle conoscenze.
La sua mente era perennemente attirata dal lontano, sia geografico che temporale, dal piacere immenso offerto dalla scoperta, dal percorso, dal guizzo dell’intuizione, dalla sfida dell’esplorazione e dalla méta da raggiungere.
Una méta quasi mai materiale, ma ideale e sublime, di perfezione, di ordine, di giustizia permeata di ottimismo, di benevolenza, di lealtà e a volte addirittura di ingenuità.
Come un moschettiere pronto a battersi in nome della lealtà rischiando anche la propria rispettabilità per il brivido dell’avventura. L’audio del televisore, come detto, era troppo alto ma Dario, immobile in quella sua posizione rigida e forzata, con la gamba destra allungata su una sedia di fronte al sofà, non sembrava accorgersene.
Era quello uno dei momenti in cui la televisione gli era nemica, uno dei momenti in cui la combatteva e la batteva raggirandola con astuzia, sfuggendo ai programmi demenziali, deleteri per l’umana intelligenza: strumenti subdoli creati per confondere e manovrare la volontà e la coscienza del popolino credulone e delegante, sempre spettatore e mai protagonista nella vita.
La batteva addormentandosi, senza neanche prendersi la briga di spegnerla, estraniandosi dalla sua realtà distorta e dalla sua falsità interessata, pur restando fermo, immobile, apparentemente comodo e privo di fastidi, almeno a giudicare dall’espressione del suo viso.
Il suo sonno non tradiva emozioni all’esterna apparenza. Come se il suo corpo fosse stato lasciato lì, ma non invece la sua mente, non la sua energia, non la sua vitalità, non la sua intelligenza che, fuori da quel corpo, scorrazzava altrove, lontano nello spazio e nel tempo.
Dario, effettivamente, stava correndo agile e leggero, senza fatica. Non con la sua moto e neanche con le sue gambe. Il suo corpo, per quanto potesse apparirgli strano, apparteneva proprio a lui e lui, pur essendo mutato, lo riconosceva come suo.
Non due, ma quattro gambe lo sorreggevano e lo facevano correre agile e leggero, veloce e nello stesso tempo ben piantato sul terreno, con un impulso e una potenza mai provati e con sensazioni forti e sconosciute di odori e rumori. Tutti i suoi sensi erano diversi. Più forti, più intensi, più selvaggi, più veri. Forse per la mancanza del casco e della tuta di pelle e dei guanti, si indusse a pensare Dario.
Ma come mai non li aveva se la sua velocità, se la sua corsa era così libera, sfrenata e piena di ostacoli?
Stava correndo in un bosco, lungo sentieri che si snodavano tra fitti arbusti, improvvise radure e grandi alberi sconosciuti. Dov’era finita la strada? Verso dove stava correndo?
Quell’inebriante aria profumata di mille sfumature dolci e aggressive, acri e sensuali, che non aveva mai assaporato, lo confondeva.
L’odore familiare e rassicurante dello scappamento e della benzina bruciata cercava di trovare uno spiraglio nella sua mente, uno spazio, per riportarlo alla realtà, in una realtà conosciuta e accettabile, ma la realtà era che stava correndo, senza la sua moto, ad una velocità non umana, sulle sue sole gambe e che le sue gambe non erano due ma quattro, e non erano gambe ma zampe fornite di zoccoli. Zampe forti e agili dotate di volontà e memoria proprie. Lo stavano infatti portando da qualche parte, in qualche luogo che non figurava nella sua mente, nei suoi ricordi, né nelle sue mète, nei suoi scopi, né nei suoi pensieri.
Provò a riflettere, a capire, a cercare di fermarsi, ma una forza motrice impellente lo portava agilmente e velocemente avanti, facendogli evitare in modo quasi soprannaturale qualsiasi ostacolo – crepacci, rovi, tronchi caduti -. E d’un tratto si rese conto che neanche le sue mani erano libere così da permettergli di spostare o evitare pericolosi rami pendenti.
Le sue mani erano impegnate ad imbracciare un arco con una freccia pronta a scoccare.
I suoi sensi più acuti, più attenti, più lungimiranti, gli segnalavano pericolo, incombenza, necessità di un suo intervento.
Sentiva nell’aria le vibrazioni e l’odore acre della paura. Percepiva lamenti e grida soffocati, repressi, frammisti a onde di ebbrezza, di piacere, di crudeltà, di delirio di potenza e superiorità.
Doveva fermare quello scempio, quell’ingiustizia, quell’iniquità, quell’atto di forza malvagio e, di conseguenza la paura che ne derivavano.
Nella sua mente questo era il pensiero dominante, mentre galoppava sempre più veloce e sempre più deciso verso il luogo dove i suoi sensi e la sua coscienza ancestrale lo guidavano. Ristabilire ordine e serenità, battersi contro quella delirante esaltazione di un “super-io” di cui conosceva ogni negatività, ogni ignominia, ogni infamia.
Ora, finalmente, sapeva dentro di sé cosa l’attendeva, come se lo avesse già vissuto, come se lo avesse già sofferto. Gli occhi della mente, della percezione e della conoscenza, lo vedevano e glielo mostravano.
E lui sapeva cosa fare. Anche senza la sua moto, anche senza il suo casco e la sua tuta di pelle nera. Aveva già su di sé l’armamentario giusto e idoneo per l’azione e per di più aveva a suo vantaggio la prerogativa dell’imprevedibile sorpresa!
Rallentò in vista della radura, una radura più vasta di quelle che finora aveva attraversato e che, da un lato, si apriva verso i campi.
Si avvicinò silenzioso e scaltro come un animale e con intelligenza e astuzia degne dell’Odisseo eliminò uno ad uno, con le sue frecce silenziose e mortali, i soldati dagli elmi di ferro lasciati a guardia del casale, che caddero trafitti al cuore senza un grido, né di dolore né di allarme.
Si avvicinò poi di più e scorse appieno la fonte del dolore, dei lamenti, della paura: un’intera famiglia di poveri contadini terrorizzati era stata caricata con la forza su un camion militare da soldati germanici che, non soddisfatti del facile successo del loro rastrellamento, infierivano deridendo e insultando, con le armi spianate, le malcapitate creature.
Sullo sfondo bruciava una grossa costruzione di legno, probabilmente il fienile.
A godersi la scena, con le mani inguantate sui fianchi, un ufficiale nazista giovane e tronfio, borioso nel suo sguardo raggiante di folle delirio.
Contro di lui si avventò Dario, con un balzo fulmineo che lasciò il nazista incredulo e stupefatto mentre, colpito in pieno petto da una delle sue frecce, non aveva neanche il tempo di richiamare l’attenzione dei suoi uomini su di lui.
Poi fu tutta una concitazione.
Dario scalpitava e galoppava in tondo, cercando di colpire con le sue frecce e con i suoi zoccoli i soldati che, increduli, allucinati e spaventati dalla sua subitanea, sconvolgente e incredibile apparizione, all’impazzata e disordinatamente sparavano raffiche e fuggivano verso il bosco circostante.
In breve, fu tutto silenzio, salvo il crepitare del fuoco. Dei soldati tedeschi erano rimasti solo quelli che giacevano a terra, morti. Degli altri, forse due o tre, che riuscirono ad inoltrarsi nel bosco, non se ne avvertì più la presenza perché fuggirono il più lontano che poterono da quel luogo.
La famiglia sul camion, miracolosamente indenne dopo quell’incredibile battaglia, rimase immobile, aggrappata al telone mimetico fissando incredula e silenziosa Dario, il centauro metà uomo e metà cavallo, apparso dall’improbabile e dal nulla nell’attimo topico del loro ormai segnato non ritorno; Dario che, preso dalla furia, ancora scalpitava e girava in tondo, cercando e fiutando, imbracciando il suo arco con una freccia pronta a scoccare.
Fino a quando il suo respiro di acquietò. Non avvertiva più nell’aria l’odore della paura.
Si voltò un’ultima volta verso la famiglia, uomini, donne e bambini, almeno dodici persone, ancora stretti e uniti sul camion. Sollevò appena verso di loro il suo arco con un gesto di saluto e, così come era venuto, subitaneamente se ne andò.
* .* .* : * : *
Si svegliò di colpo, con l’audio del televisore che lo stava assordando. Era la sigla di quell’insopportabile gioco a premi. Doveva essersi addormentato, altrimenti avrebbe eliminato quel programma o spento immediatamente il televisore.
Il dolore alla gamba era fortissimo. Non ricordava di avere mai provato un dolore così lancinante per una semplice distorsione alla caviglia. Addormentandosi profondamente in una posizione scomoda, aveva sicuramente gravato sui tendini già infiammati e danneggiati.
Si allungò un po’ per tentare di massaggiarsi la caviglia e inspiegabilmente se la trovò insanguinata.
Impossibile, ovviamente, visto che si era semplicemente distorto la caviglia, ma non poteva ignorare la ferita profonda sulla sua gamba, uno foro rosso scuro, che sotto i suoi occhi attoniti spiccava sul pallore della pelle, appena sopra il gesso, e perdeva copiosamente sangue. Come se fosse stato colpito da un proiettile!
Svenne per il dolore, e in quel fugace attimo di passaggio tra la coscienza e l’incoscienza si aprì e si richiuse il varco d’un bosco e la sensazione di una fitta dolorosa alla sua zampa posteriore destra, mentre correva e scoccava frecce!
Quando rinvenne, la coscienza prese il sopravvento e gli suggerì di essere stato vittima d’un incubo.
A lui non aveva mai sparato nessuno, si disse tra sé e sé per convincersi: la sola idea era ridicola.
Lui era caduto stupidamente dalla sua moto parcheggiandola in garage! Capita di fare le cose distrattamente e provocare così piccoli disastri.
La distorsione sarebbe guarita e il dolore sarebbe passato.
Anche la ferita e il proiettile sarebbero scomparsi, prima o poi, perché ovviamente facevano parte dell’incubo, di quello strano incubo persistente. O no?