Nel futuro? Lavoreremo meno e saremo più felici.Oppure continueremo a massacrarci con tempi assurdi e salari infimi in attesa di qualche bonus.
La riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è un tabù che è destinato a cadere, anzi che in più di qualche pezzo d’Europa è stato già abbattuto.
È avvenuto sulle sponde del Mare del Nord e, per quanto ci riguarda per alcuni contratti collettivi, come risultato della libera contrattazione fra le parti.
Vi sono categorie, come i metalmeccanici, che hanno già ottenuto delle riduzioni, dalla Germania all’Italia. Anche i bancari, i chimici e altri settori ne hanno beneficiato in conseguenza di accordi specifici tra sindacati padronali e lavoratori.Più problematico e difficile farlo cadere, il tabù delle quaranta ore, a livello legislativo.È semplice affidarsi alle volontà delle parti, altra cosa è intervenire con una legge che fissi i paletti entro i quali le parti si devono muovere.
In Italia la legge fissa il limite estremo del lavoro in quaranta ore settimanali, ferma restando la facoltà delle parti di raggiungere accordi migliorativi.
Si tratta, per i difensori dello status quo, di un limite che va salvaguardato a tutela dell’universo delle aziende, da quelle più piccole e meno dotate tecnologicamente a quelle maggiormente esposte ai contraccolpi della concorrenza.
È la medesima ragione per cui si nega la possibilità di fissare per legge il salario minimo orario.Facendolo, dicono i negazionisti, si rischierebbe di pregiudicare la stessa sopravvivenza di molte aziende a cominciare da quelle più piccole e vulnerabili sul fronte dei costi. Costoro si trincerano dietro all’assunto che nulla vieta ai protagonisti, lavoratori e imprenditori, di concordare, a livello di rappresentanze sindacali, un prezzo che vada bene a tutti.In realtà una simile posizione sconta la volontà di salvaguardare gli interessi dei più forti o, per essere più precisi, di quanti affidano la tutela delle loro rendite al potere istituzionale e politico ( emblematico il caso dei concessionari dei lidi balneari, massimo esempio di inefficienza pubblica e salvaguardia di rendite gratuite).Essa è frutto della volontà di proteggere un sistema economico e produttivo assai precario e non in grado di affrontare le sfide imposte da una competizione sempre più alta e sofisticata.
Di fatto il mercato è spezzato in due segmenti che difficilmente si potranno incrociare o, addirittura, reciprocamente completare. E questo sia a livello nazionale che internazionale.Il segmento legato alle produzioni tecnologicamente all’avanguardia e caratterizzate da domanda di professionalità in grado di assicurare prestazioni elevate in un mercato, pubblico e privato, a sua volta ricco e capace di acquisirne i prodotti ed i servizi in termini solidi e costanti, può affrontare stipendi alti e consistenza di lavoro ragionevolmente bassa al di là delle disposizioni di legge.Si pensi ai comparti della ricerca, della digitalizzazione, dei satelliti, dell’aerospazio, dell’energia, della chimica e farmaceutica, dell’automotive di frontiera, delle armi difensive o offensive che siano (ahimè), del design, del lusso e del gusto esclusivi, della comunicazione e del marketing strategico ed operativo, della finanza e del controllo qualitativo. Insomma tutti quei comparti produttivi e quei sevizi per i quali il vantaggio competitivo è dato proprio dalle risorse umane e dalla loro capacità di spostare in avanti le frontiere della conoscenza e dello stesso mercato.
È il futuro.
Paradossalmente, in una prospettiva storica di medio-lungo periodo il mercato del lavoro si andrà restringendo nel mondo mentre si dilaterà la capacità del sistema economico di creare ricchezza.
Da qui la necessità di intervenire riqualificando e specializzando, come sosteneva David Ricardo, ciascuno il proprio segmento produttivo in maniera da reggere la competizione ( e l’integrazione) internazionale.
È in questa prospettiva che la riduzione dell’orario di lavoro diventa una scelta strategica.Portare il tempo di lavoro da quaranta a trentacinque ore settimanali per legge significa fare una scelta precisa in direzione del futuro.Significa stimolare il tessuto produttivo a mettersi alla prova e l’intera economia di un Paese o di un continente, è il caso dell’Europa, ad affrontare con decisione la sfida che impone il passaggio ad un modello in linea con la storia, la scienza, il futuro. Il futuro infatti è sempre più proteso verso traguardi di esaltazione delle capacità dell’Intelligenza Artificiale, dei calcoli quantistici e degli algoritmi, delle macchine e dei robot a fronte della capacità di impostare e guidare la progettazione, la ricerca, la elaborazione, il controllo e la validazione delle stesse, affidate all’intelligenza umana.
Il fine della produzione è da sempre la soddisfazione dei bisogni di una collettività piccola o grande che sia.
L’obiettivo di un sistema economico è, dal canto suo, quello di combinare le esigenze della produzione e del consumo dando vita al mercato che altro non è se non il risultato dell’incontro della domanda e dell’offerta al punto di massimo equilibrio possibile.
Lo scopo di una comunità è dunque quello di garantire l’ordinato sviluppo delle relazioni umane salvaguardando l’obiettivo generale del benessere generale.Si arriva in questo modo all’idea della distribuzione efficace e giusta della ricchezza prodotta entro i confini della nazione o del mondo intero .
Da essa scaturisce la necessità dello Stato sociale che, nei tempi moderni e contemporanei, ha imparato ad usare il surplus di ricchezza prodotta per assicurare alla comunità nel suo complesso il massimo di felicità possibile.Non è un azzardo teorizzare che, nel futuro, il tempo di lavoro dovrà necessariamente ridursi ed anche il numero di quanti lavoreranno nelle fabbriche e negli uffici per come li abbiamo sin qui conosciuti, dovrà contrarsi a fronte di una crescita esponenziale della capacità di creare ricchezza propria delle nuove tecnologie.
Il discrimine sarà tra la destinazione della ricchezza ad uso privato ed uso collettivo.Nel caso dovesse prevalere il primo si andrà incontro al progressivo impoverimento della società non solo economico ma anche culturale e civile con la democrazia a rischio e le visioni distopiche in agguato.Viceversa laddove prevalga il secondo, la società sarà in grado di perseguire la felicità dei suoi cittadini in uno con la crescita culturale degli stessi. La democrazia sarà salvaguardata e saranno respinte le visioni distopiche.Non si tratta di un assioma scontato né di un’affermazione priva di verità.Gli economisti classici, da Smith a Ricardo, indicarono come risultato della produzione della ricchezza la elevazione delle condizioni sociali della popolazione. Tanto che qualcuno, Robert Malthus in particolare, teorizzò la necessità di tener basso lo sviluppo e la crescita dei consumi per timore che l’eccesso di progresso nella società, che si sarebbe tradotto nella esplosione demografica, provocasse una sorta di effetto boomerang per esempio con le risorse naturali che avrebbero rischiato di divenire insufficienti ( oggi, a distanza di più o meno tre secoli, siamo alla brutale compromissione degli equilibri del pianeta).Anche Keynes e la schiera di quanti si riconobbero nel suo insegnamento e nella programmazione pubblica dell’economia inclusiva ed espansiva affermavano il primato della ricchezza collettiva.
I teorici del collettivismo, Marx in testa, affermarono addirittura, al di là di ogni infingimento dialettico, che con la crescita della ricchezza collettiva (alimentata dal surplus di valore prima incamerato dal capitale privato) il tempo dedicato al lavoro si sarebbe ridotto e sarebbero aumentate le attività legate alla creatività umana, agli affetti, alla cultura ed al tempo libero. Anzi proprio la liberazione dell’uomo dalla “schiavitù” capitalistica era alla base della teorizzazione della proprietà pubblica dei mezzi di produzione.Di conseguenza, nella nuova realtà, sarebbe cresciuto l’interesse per tutte quelle istanze di auto realizzazione umana e parallelamente si sarebbero moltiplicati i luoghi e le attività ad esse destinati o connesse mentre individui e comunità avrebbero sviluppato la loro capacità di essere cittadini solidali, consapevoli e responsabili e quindi capaci di vivere in pace rifuggendo da guerre e violenze.
Beh, era una bella prospettiva, al netto delle aberrazioni e mistificazioni giunte sino a noi da parte di chi quel pensiero tradì nella realtà storica.
Certo essa sa di utopia e comunque è tale da doversi inquadrare in tempi lunghi che non significa impossibili, come sosteneva Keynes, se è vero che la società sopravvive ai morti e se è vero che essa per crescere e sopravvivere a sé stessa deve saper intraprendere scelte coraggiose e andare oltre gli equilibri consolidati.D’altro canto nel rifiuto del tempo lungo in cui saremo tutti morti, sempre secondo l’ironica frase di Keynes, vi è la volontà di conservare lo status quo.La difesa ad oltranza del limite invalicabile del tempo destinato alla fabbrica, già troppo basso secondo alcuni, ed anche l’opzione di lasciare orario di lavoro, salari, ferie e tutto il resto alla libera contrattazione delle parti rappresenta una sorta di linea maginot del conservatorismo a tutela del tempo andato all’interno del quale ovviamente vince il più forte.
Non solo, essa nasconde anche un’evidente scelta a difesa di un sistema produttivo geloso delle rendite di posizione e, magari, abbarbicato su un’ idea di autarchia protetta dai muri dei dazi che garantiscono i comparti tradizionali concentrati sull’impiego di fattori al più basso costo possibile che presuppone anche l’uso dissennato del pianeta, senza pretese e senza ambizioni.
In tale contesto è ovvio che anche il lavoro debba rimanere schiacciato entro condizioni vetero industriali alla Ford con tempi fuori controllo, paghe ridotte all’osso e frustrazioni che negano cultura e solidarietà minando la democrazia nel presupposto che essa non è così necessaria ed ingrossando le schiere di quanti predicano violenza e sopraffazione con l’intento di impadronirsi delle istituzioni democratiche e spingerle verso la democratura che somiglia tanto alla dittatura.Insomma vi è una scelta da compiere.Operare con lo sguardo rivolto al futuro, riducendo l’orario di lavoro, introducendo la garanzia di un salario minimo, stimolando la creazione di un sistema produttivo all’avanguardia in grado di essere leva per far avanzare la comunità che in esso si riconosce. Oppure guardare al passato, spingere per un’economia di risulta in una società assistita che rinuncia a crescere culturalmente, che ignora le utopie e si innamora del linguaggio scurrile cedendo alle promesse di chi fa incetta di ricchezze pubbliche a esclusivi fini privati, elargendo elemosine in cambio di ubbidienza per imbrigliare la democrazia rea di non aver creato nel breve tempo storico a sua disposizione l’eldorado di volteriana memoria, come affermano i suoi detrattori
La Spagna in questi giorni si è ancora una volta schierata per il futuro.
Lo ha fatto reagendo per tempo e con determinazione alla tempesta dei dazi trumpiani contro l’Europa ed il mondo intero.
Lo fa adesso guardando ad un’umanità libera e responsabile che vuole salvaguardare la ricchezza collettiva per allargare gli spazi di libertà e creatività.
È di questi giorni il disegno legislativo assunto dal Governo Sanchez su proposta della ministra del lavoro Yolanda Diaz per ridurre da 40 a 37,5 le ore settimanali destinate al lavoro.
Il presidente del Consiglio spagnolo ha sollecitato gli imprenditori ad accettare la sfida che va in direzione di un modello competitivo di alto profilo che si accompagni ad una società che ambisca anch’essa a crescere sul piano culturale, tecnologico, della formazione avanzata, delle ricerca e del lavoro di qualità puntando sull’avanzamento collettivo che si riflette in una comunità coesa che rifiuta oligarchi e padroni dello Stato.
Insomma la riduzione dell’orario di lavoro, come la previsione di un salario minimo, sono dei piccoli passi per gli individui, come ebbe a dire Neil Armstrong poggiando il piede sulla luna, ma di grande valore per l’umanità e per ogni nazione che intenda riconoscersi negli obiettivi di inclusione e di felicità collettiva.
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