L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco 

In un contesto in cui il diritto di voto è considerato un pilastro fondamentale della democrazia, le recenti dichiarazioni del vicepremier Antonio Tajani hanno sollevato notevoli interrogativi. L’invito esplicito all’astensione dai referendum dell’8 e 9 giugno, motivato da una posizione politica contraria ai quesiti referendari, introduce una dinamica complessa nel dibattito pubblico.

La legittimità dell’astensione come scelta politica è innegabile. Tuttavia, l’enfasi posta sull’invito a non partecipare, soprattutto da parte di un membro del governo, solleva dubbi sulla coerenza tra la retorica della sovranità popolare e la pratica di scoraggiare la partecipazione civica.

Questa posizione contrasta con il principio secondo cui il referendum rappresenta uno strumento di democrazia diretta, attraverso il quale i cittadini possono esprimere la propria volontà su questioni di rilevanza nazionale.

Se è vero che astenersi è un diritto, un governo che attivamente incoraggia tale scelta, soprattutto in relazione a uno strumento di democrazia diretta come il referendum, svela una concezione singolare del proprio ruolo. Anziché farsi promotore di un dibattito aperto e di una partecipazione consapevole, sembra preferire un’aula semivuota, dove le proprie decisioni incontrino meno resistenze.
Le reazioni indignate dell’opposizione evidenziano un timore palpabile: che dietro questo invito all’inazione si celi la paura di un verdetto popolare scomodo, una riluttanza a confrontarsi nel merito su temi sensibili come il lavoro e la cittadinanza.

L’ombra del boicottaggio si allunga, alimentata da una circolare ministeriale che limita la comunicazione istituzionale, quasi a voler oscurare la visibilità stessa del voto.

E qui sorge spontanea una riflessione sulla vera natura di questo appello all’astensione. Non si configura forse come un atteggiamento di chi si fa “turista” della democrazia? Un governo che sembra fruire del coinvolgimento popolare solo a intermittenza, a seconda della convenienza politica del momento, quasi concedendosi una “vacanza” dalla volontà popolare quando questa rischia di contrariare i propri piani.

Si sottolinea come l’invito all’astensione possa essere interpretato come un tentativo di influenzare l’esito del referendum attraverso la riduzione del quorum, piuttosto che attraverso un dibattito aperto e trasparente sui meriti delle proposte referendarie.

La questione centrale risiede nella distinzione tra il diritto individuale di non votare e l’invito istituzionale a non farlo. Mentre il primo è una libertà personale, il secondo assume una dimensione politica che può essere percepita come un tentativo di orientare l’opinione pubblica e di influenzare l’esito di un processo democratico.

Inoltre, la giustificazione fornita dal Ministero dell’Interno riguardo alla circolare n. 21/2025, presentata come una mera applicazione di disposizioni vigenti, non dissipa completamente i dubbi. La coincidenza temporale tra la circolare e l’invito all’astensione solleva interrogativi sulla possibile esistenza di una strategia coordinata per limitare l’informazione e la partecipazione.

Sarebbe il caso che il governo chiarisca la sua posizione riguardo all’invito all’astensione e alla comunicazione istituzionale sui referendum. La trasparenza, l’equità e il rispetto per il processo democratico sono fondamentali per preservare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.

La decisione di votare, o di non votare, rimane una scelta individuale, ma tale scelta deve essere esercitata in un contesto di informazione completa e imparziale.

L’8 e 9 giugno non siano giorni di silenzio, ma un’occasione per riaffermare che la democrazia non è un albergo a ore per governanti di passaggio, ma la casa comune di tutti i cittadini.

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