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di Marco Mayer

 

In un’epoca segnata da turbolenze geopolitiche, rivalità sistemiche e transizioni tecnologiche, il rapporto tra Cina e Stati Uniti continua a modellare le sorti del mondo. Per comprendere meglio le trasformazioni in corso e le possibili traiettorie future, ho intervistato Francesco Scisci, sinologo di fama internazionale, docente alla LUISS e al Master “Analisti per la Difesa e Sicurezza” dell’Università di Palermo, già consigliere del Ministro della Difesa nel biennio 2017-2018.
Il dialogo che segue affronta senza retorica alcune domande cruciali sul ruolo della Cina, sull’Occidente, e sul delicato equilibrio globale di questi anni.

 

Domanda. È importante immaginare – tra gli scenari possibili – un mondo in cui l’influenza politica e tecnologica cinese possa superare quella degli Stati Uniti. In questa prospettiva, più o meno probabile, esiste il rischio che il totalitarismo digitale prevalga sui valori della democrazia liberale e della società aperta?

Risposta. Non lo so, ma mi sembrano questioni ancora molto remote. Più urgenti, a mio avviso, sono i rischi di scivolare casualmente, già nei prossimi mesi, in una nuova guerra.

D. Il deficit commerciale degli Stati Uniti è il sintomo di un crescente processo di finanziarizzazione dell’economia americana, che per anni ha favorito l’ingresso di capitali cinesi e stranieri. Perché, secondo te, Trump insiste tanto sulla produzione di merci e non solleva invece il tema centrale: ovvero la mancanza di libertà per gli imprenditori stranieri che investono in Cina, in violazione delle regole di mercato dal 2001?

R. Credo che ci siano dinamiche complesse all’interno dell’amministrazione americana. E penso anche che spesso l’analisi della questione cinese sia troppo superficiale.

D. Oggi il mondo sembra orientarsi verso un assetto tripolare: da una parte Cina e Russia, dall’altra gli Stati Uniti con i loro alleati, e infine un terzo gruppo di paesi “doppiamente allineati”, che perseguono una politica dei due forni sia con Washington che con Pechino. Un esempio tipico è l’Arabia Saudita. Questo equilibrio precario può reggere di fronte al risorgere dei nazionalismi, non solo in Cina?

R. A mio avviso la Russia non è un polo, semmai un “pollo”: senza l’appoggio cinese, oggi la Russia non esisterebbe. È vero che Pechino non impone una linea a Mosca, che mantiene alcuni margini di manovra, ma credo sia un errore considerare la Russia come una superpotenza.

D. In diverse occasioni hai affermato che molti concetti e categorie “occidentali” non sono più significative. Puoi fare qualche esempio concreto in cui l’approccio cinese potrebbe indicare una metodologia più adatta ai tempi che viviamo?

R. Anche nelle università occidentali si sta diffondendo quello che viene chiamato approccio interdisciplinare. È un’ammissione implicita che le discipline tradizionali, da sole, non funzionano più. Occorre pensare in termini nuovi. Bisogna ovviamente osservare cosa propone concretamente la Cina oggi, ma la debolezza metodologica dell’Occidente può costituire un’opportunità di ripensamento e rigenerazione.

D. Oggi si assiste a una riscoperta delle tradizioni storiche cinesi. Ma quanto incidono ancora il marxismo e il pensiero di leader come Mao Zedong, o dello stesso presidente Xi Jinping, nella formazione scolastica e universitaria dei giovani cinesi?

R. Ritengo che il marxismo, e soprattutto il maoismo come forma mentis, siano ancora molto presenti. È fondamentale l’idea delle “caratteristiche cinesi”, introdotta da Mao: la convinzione che la Cina abbia una sua specificità, storica e culturale, che la distingue da qualunque altra esperienza internazionale. Questo principio costituisce forse il cuore della ricerca attuale.

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