In pratica, introduce un divieto generalizzato su tutte le attività connesse alle infiorescenze della canapa, comprese importazione, lavorazione, distribuzione e vendita, estendendo il blocco anche a prodotti derivati come estratti, resine e oli.
Una intera filiera assoggettata a un regime sanzionatorio anche in assenza di finalità illecite, assolutamente incoerente nei confronti del diritto europeo del libero scambio tra gli stati membri.
Il problema più rilevante è la tempistica nell’applicazione della legge che ha letteralmente spiazzato tutti gli operatori del settore, lasciandoli di fatto senza indicazioni su come gestire la situazione.
Mettiamo il caso che una persona gestisca un punto vendita di questa merce, se da un giorno all’altro non può venderla perché ritenuta illegale, cosa dovrebbe fare?
Sappiamo tutti cosa comporta l’apertura di un’attività, specie di questi tempi, a parte la burocrazia che è una vera e propria maratona tra uffici, documenti e carte bollate che farebbero perdere la pazienza anche a un monaco buddista, i costi non sono sicuramente bassi, chi si è imbarcato in questo genere di progetti lo sa benissimo, ogni momento saltano fuori nuove spese non programmate che, nella maggior parte dei casi, mettono logicamente in difficoltà perché diventa praticamente impossibile fare un calcolo preciso delle spese.
Chi apre un’attività, lo fa per costruirsi un futuro e non sicuramente per un capriccio e non credo che possa accettare a cuor leggero il veder sfumare in un batter d’occhio ciò per cui ha superato mille difficoltà, qui si tratta di buttare su una strada speranze e sacrifici di molte persone, tra le quali molti giovani.
E non si tratta solo di negozi ma di un’intera filiera che comprende anche agricoltori, lavorazione del prodotto, commercianti attivi nella coltivazione e distribuzione, una filiera in espansione nonostante le difficoltà normative che darebbe lavoro a molte persone e, veramente, rinunciare a un settore produttivo e a potenziali contribuenti in questo momento di crisi, fa veramente sorgere la domanda : a quale scopo?
Non si capisce il perché.
In Italia si contano circa 800 aziende attive nella coltivazione e 1500 impegnate nella trasformazione della cannabis light con un fatturato annuo complessivo stimato intorno ai 500 milioni di euro, con circa 11.000 posti di lavoro diretti in pianta stabile e 30.000 stagionali, da maggio a dicembre.
Una stima pubblicata a marzo su International CBC, afferma che l’intera industria italiana della cannabis light, supporterebbe circa 22.000 posti di lavoro a tempo pieno.
Non dimentichiamo poi, che viene usata anche a scopo terapeutico e di conseguenza molte persone che si curano da anni con i derivati della cannabis, rischiano di avere seri problemi a reperire i prodotti curativi.
La gestione delle sostanze a base di CBD (cannabidiolo), la cui origine può variare tra naturale, sintetica o semisintetica, apre scenari abbastanza ambigui, infatti, paradossalmente,gli oli sarebbero tecnicamente illegali se ricavati da infiorescenze, mentre, se il medesimo principio attivo fosse di origine sintetica, non ricadrebbe nelle restrizioni del decreto, si ha quasi l’impressione che si voglia favorire il prodotto sintetico in un mercato che tende sempre di più all’utilizzo di prodotti naturali.
Una situazione incoerente che rende ancor più difficile operare nel settore.
Cosa si potrebbe fare? Magari convocare un tavolo tecnico con gli operatori del settore per confrontarsi e trovare un accordo, se non fosse che, con questo governo, la cosa sembra impossibile da realizzare.
Cosa abbastanza strana visto che, teoricamente, il governo sosterrebbe l’agricoltura e i prodotti nazionali, dov’è, quindi, la tutela del “Made in Italy”?
Qui proprio non si vede.
Ph realizzata con IA Gemini.