“Ogni generazione, ridendo, seppellisce quella che l’ha preceduta.” – George Orwell
Io mi sento ancora socialista.
Non per nostalgia. Non per comodo. Ma perché credo che il lavoro sia il fondamento della dignità umana, il vero motore dell’emancipazione individuale e collettiva.
Credo nella solidarietà autentica, non imposta. Credo che ogni società sana debba misurarsi su come tratta chi lavora, non su quanto riesce a parlare di lavoro nei suoi comizi.
È proprio perché credo in questi valori che ogni anno, arrivato il 1° maggio, provo un senso di fastidio crescente.
Questa data, che dovrebbe essere un momento di riconoscimento e di orgoglio per chi lavora, per chi costruisce, per chi produce, è stata trasformata in un evento caricaturale, ripetitivo, vuoto.
Un grande rito collettivo dove si celebra non il lavoro, ma l’appartenenza a una ideologia che pretende ancora di parlare a nome di tutti.
E così il 1° maggio diventa il giorno dei cortei rituali, delle sfilate sindacali sempre più distaccate dal mondo reale, dei discorsi preconfezionati che sembrano scritti vent’anni fa e rimasti lì, in un cassetto impolverato.
Ma soprattutto diventa il giorno del Concertone di piazza San Giovanni, la vera grande messa laica della sinistra istituzionale.
Sul palco sfilano cantanti che da decenni recitano il copione dell’artista “contro”, magari tra una tournée sponsorizzata e una comparsata televisiva.
Cantano la rivoluzione, la lotta, la speranza.
Ma lo fanno da una posizione di privilegio economico e culturale assoluto.
I loro cachet, le loro carriere, le loro posizioni pubbliche sono garantite da quello stesso sistema che fingono di combattere.
E intanto, chi lavora davvero?
Chi fa il muratore, chi apre la bottega, chi vive nella precarietà, chi costruisce startup o combatte contro la burocrazia per mandare avanti una piccola azienda?
Di loro non parla nessuno.
Non sono “epici”, non sono abbastanza romantici per finire nei testi delle canzoni militanti.
Sono troppo concreti, troppo lontani dalla narrazione eterna di “buoni contro cattivi” che ancora oggi avvolge il 1° maggio.
Eppure anche noi, anche io, il 1° maggio lo festeggiamo.
Ci fermiamo. Onoriamo il nostro impegno. Riconosciamo il valore della nostra fatica, delle nostre sfide quotidiane.
Ma non ci riconosciamo nella liturgia stanca che ci viene offerta.
Non abbiamo bisogno di cortei di maniera, né di slogan rimasticati.
Non ci servono i sermoni sindacali che parlano ancora come se il mondo fosse diviso in padroni da abbattere e operai da redimere.
Abbiamo bisogno di verità.
Di riconoscere che oggi il lavoro si chiama anche partita IVA, anche innovazione, anche rischio personale.
Che oggi il nemico non è più solo il “padrone cattivo”, ma un sistema complicato dove spesso è lo Stato stesso a ostacolare il lavoro libero.
Che la vera sfida non è “contro” qualcuno, ma per qualcosa: libertà, dignità, responsabilità, futuro.
Essere socialista, oggi, per me non significa ripetere meccanicamente le formule del passato.
Significa avere memoria storica, sì, ma anche lucidità nel presente.
Significa saper vedere che i problemi cambiano, che le lotte evolvono, che il lavoro va difeso ogni giorno, senza bandiere fisse, senza retoriche comode.
Io il 1° maggio lo festeggio.
E so che non appartiene a una parte politica, né a una bandiera sola.
Il 1° maggio è di tutti.
Di chi lavora, di chi crea, di chi costruisce.
Di chi crede che il lavoro meriti rispetto, non propaganda.
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