Giorgia Meloni è partita per l’America con la fierezza della sovranista in missione, ed è tornata con l’entusiasmo di chi ha appena firmato l’abbonamento premium alla dipendenza strategica. A Washington ha trovato Donald Trump ad attenderla con il solito carico di retorica muscolare, smentite creative e un’agenda dove la parola “Europa” figura solo accanto a “parassiti”. Ma tranquilli, non l’ha mai detto.
Il vertice tra Meloni e Trump si è aperto con la scena madre: il presidente americano nega di aver mai definito gli europei dei parassiti. Lei annuisce, lui giura, entrambi sorridono come due attori in uno spot di dentifricio geopolitico. Peccato che Trump quella parola l’abbia usata eccome, più volte, più platealmente e con l’entusiasmo di chi sa benissimo cosa vuole dire. Ma chi siamo noi per contraddire due leader così coesi?
Meloni ha così sfoderato il suo lato migliore: quello della smentitrice entusiasta. D’altronde, se la realtà non combacia con la narrazione, tanto peggio per la realtà. Come quando nega che stiamo pagando miliardi per gas americano a peso d’oro o che la difesa italiana stia diventando una succursale del Pentagono. “Fake news”, direbbe qualcuno.
Quella che fino a ieri giurava battaglia a Bruxelles in nome della sovranità nazionale, oggi si presenta a Washington con il cappello in mano e la lista della spesa già approvata: F-35, gas liquefatto, collaborazione tecnologica con Starlink, aumento delle spese militari al 2% del PIL. Altro che sovranità: sembra il Black Friday della subordinazione strategica.
Meloni, paladina del “prima l’Italia”, sembra ora convinta che il vero patriottismo consista nel dire “sì, signore” a ogni richiesta americana, purché le venga concesso un selfie con il Tycoon. Il risultato? Una diplomazia fatta di posture, proclami, e nessuna reale contropartita per il Paese.
L’incontro è stato condito da un copione perfetto: sorrisi forzati, strette di mano e reciproche adulazioni, come se ci trovassimo davanti a una riunione tra pari. Ma non lo era. Perché quando uno detta le condizioni e l’altro le accetta ringraziando, non si chiama “relazione speciale”: si chiama subordinazione travestita da alleanza.
Meloni è riuscita in un’impresa che sembrava impossibile: farsi portabandiera del sovranismo mentre compila assegni per conto terzi. Non è più la leader che sfidava l’UE in nome dell’autonomia nazionale, ma l’intermediaria d’élite tra i desiderata americani e le casse pubbliche italiane.
Che fine ha fatto il concetto di interesse nazionale? È stato sostituito da un algoritmo che traduce “autonomia” in “fedeltà atlantica”, “difesa” in “importazione di armamenti” e “sovranità” in “obbedienza ben remunerata”.
Nel frattempo, ai cittadini italiani resta il sapore amaro di una leadership che predica l’indipendenza ma pratica la subordinazione, che accusa l’Europa di intromettersi mentre accetta di buon grado le imposizioni di Washington.
Alla fine, quello tra Meloni e Trump è stato un incontro simbolico: due leader accomunati dalla capacità di manipolare il linguaggio e reinventare la realtà a beneficio del proprio pubblico. Ma mentre Trump recita per guadagnare voti, Meloni sembra recitare per essere ammessa alla cerchia dei grandi, come una stagista che spera di diventare socia solo perché prende appunti con zelo.
E mentre gli italiani osservano il teatrino tra un “non l’ha mai detto” e un “pagheremo volentieri”, resta una sola verità: la sovranità non si conquista a colpi di strette di mano con chi detta il prezzo. Si difende rifiutando di barattarla per un applauso d’oltreoceano.
Meloni celebra l’incontro con Trump come un trionfo della diplomazia. E in effetti, se il successo si misura in miliardi spesi, promesse di sottomissione tecnologica e abbracci fotogenici, allora sì, è stato un evento storico. Ma per il resto degli italiani, quelli che contano gli spiccioli a fine mese, la domanda è: a che pro?
La sovranità tanto decantata dal governo si riduce a un rebus: quanto siamo disposti a indebitarci per mantenere un posto al tavolo dei “grandi”? Perché se il prezzo da pagare è svendere il futuro alle lobby militari e energetiche statunitensi, forse sarebbe meglio ricordare che la vera autonomia inizia col dire “no, grazie” a chi ci offre amicizie con il prezzo incluso.
Alla fine, la domanda è semplice: quanto costa essere “speciali” per gli Stati Uniti? La risposta appare nella lunghissima lista della spesa che ci è stata gentilmente fornita. Perché l’amicizia con l’America è un po’ come quella con il ricco del gruppo: lui sceglie il ristorante stellato, tu paghi il conto.
Intanto gli italiani si preparano a pagare il prezzo di questa “relazione speciale”. Con la consapevolezza che, nel grande gioco della geopolitica, abbiamo scambiato un padrone per un altro, ma continuiamo a chiamarlo “sovranità”.
pH Pixabay senza royalty

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