Virgil era un “perfetto” maniaco assassino.
Proprio lui, un tranquillo scapolone di mezza età, tutto lavoro-casa-chiesa, sempre sobrio, educato, gentile, timido e riservato, silenzioso, discreto, quasi invisibile nel suo villino immerso nel verde alla fine della strada, dove viveva solo da quando sua madre s’era trasferita per raggiungere in un’altra non meglio precisata contea, una sorella malata. S’era trasferita e non aveva mandato neanche una cartolina. Almeno così assicurava, durante le sue frequenti sedute al pub, il postino del villaggio.
Non a caso quindi s’era spettegolato all’inizio circa quella partenza inaspettata e frettolosa, anche perché Virgil era quel che si può definire il classico “mammone” e la sua era la classica madre che aveva contribuito a renderlo tale; ma dopo qualche tempo, visto che lui continuava tranquillamente la sua vita seguendo immutata la routine quotidiana, le chiacchiere cessarono e si pensò soltanto che Virgil, finalmente, fosse cresciuto e fosse diventato autosufficiente.
Non ci si meravigliò neanche del fatto che non avesse bisogno di aiuto per mandare avanti la casa, né per preparare i pasti o stirare le camicie. Era sempre inappuntabile, sobrio, gentile, distaccato e la sua casa, vista da fuori, era a posto così come pure il giardino. Tutto era in ordine e ben curato, segno che Virgil se la sapeva cavare benissimo anche da solo.
D’altronde in un piccolo villaggio di campagna, di quelli che sembrano usciti dalle pagine di un racconto di Montague R. James, c’è sempre qualcosa di nuovo, di più contingente e piccante su cui spettegolare.
L’essere ritornato nel dimenticatoio, il non essere più al centro degli sguardi indiscreti e scrutatori dei suoi vicini e degli altri abitanti di quel piccolo borgo, rilassò molto Virgil che, non abituato a tutto quell’interessamento, palese e non, s’era oltremodo innervosito.
Fingendo di non notare i vicini che lo scrutavano da dietro le tendine, aveva fatto forza su se stesso per non lasciar trapelare il suo nervosismo e continuare, con la sua solita flemma e precisione, le attività che stava espletando.
Aveva anche finto di non notare, pur essendone molto infastidito, che la gente, incontrandolo per la strada o in chiesa, lo squadrava da capo a piedi.
E aveva soprattutto finto di non notare che in molti erano divorati dalla curiosità di sapere che fine avesse fatto sua madre e del perché non tornasse dal suo unico figlio.
Virgil dava così poca confidenza, era così riservato che la gente, dopo poche frasi di convenienza, non riusciva ad avviare una conversazione con lui, perché lui, pur mantenendosi nei limiti della gentilezza e dell’educazione, troncava quegli approcci con freddo distacco.
Amicizie vere e proprie non ne aveva, né maschili, né femminili. Tutta la sua vita sociale si svolgeva al lavoro, dove peraltro era sì efficiente ma isolato e snobbato, e in chiesa, dove faceva la sua apparizione silenziosa e solitaria tutte le domeniche mattina.
Per il resto del tempo spariva. Una volta rientrato in casa dal lavoro, diventava invisibile per il resto del mondo.
Eppure la sua attività era frenetica. Non stava un attimo fermo. Sistematicamente, instancabilmente, tutta la sua intelligenza e la sua energia le dedicava all’ordine, alla razionalizzazione. Ogni singolo oggetto, nell’ambito della casa, doveva avere una sua collocazione logica e ordinata. Che si trattasse di libri – che aveva disposto nella sua libreria in ordine non solo cronologico ma anche d’autore, d’argomento, di edizione, di altezza e di estetica – o di semplici barattoli di provviste. Tutto doveva essere ordinato e tenuto secondo una rigorosissima sua logica, in allineamento di grandezza, di sfumatura di colore, o addirittura di sapore.
Questa meticolosità s’era estesa, piano piano, si può dire a tutto, a qualsiasi oggetto della casa, della cucina, all’utensileria, alla biancheria, al guardaroba, alla cantina, al giardino, al garage.
Nulla, assolutamente nulla, neanche i suoi calzini o le sue mutande, erano esenti da tale rigoroso assetto.
Anche le sue abitudini avevano iniziato a seguire questa logica. Erano divenute sistematiche, rituali, con orari e scadenze precise, programmate e assolutamente da rispettare. Guai se qualcosa si intrometteva o intralciava i suoi piani e scombinava i suoi orari, le sue previsioni. Non sopportava la minima interferenza o contrarietà. In tali disgraziate circostanze le sue reazioni erano imprevedibili, sicuramente fuori controllo e, nel migliore dei casi, oltre le righe.
Questo era stato il motivo che aveva indotto sua madre ad allontanarsi. Addirittura a fuggire in fretta e furia dalla casa, che pure era di sua proprietà, e da lui, che pure amava con amore materno, e a non fare più ritorno.
Bisogna considerare che il suo bisogno di perfezionismo era enormemente aumentato nel tempo. Virgil era diventato sempre più esigente e intransigente e intollerante, soprattutto nei confronti di sua madre che, data l’età e la mole (era pesante e goffa) non eseguiva alla lettera le sue istruzioni.
Ormai, tale era la priorità che queste piccole inezie reclamavano nei suoi pensieri, che era giunto addirittura a lasciare disposizioni scritte a sua madre perché provvedesse e si attivasse in modo che ogni cosa, ogni oggetto, ogni indumento, ogni fiore, ogni incombenza, fosse sistemata ed eseguita secondo le sue istruzioni. Persino i soprammobili, i ninnoli della casa, erano stati disposti secondo una sua logica ed una sua estetica: era arrivato al parossismo di segnare con una crocetta il punto preciso in cui ognuno di essi doveva essere collocato, perché era capitato che sua madre, nello spolverarli, non li avesse rimessi nel posto da lui assegnato, circostanza questa che lo aveva non poco irritato.
Sua madre aveva sopportato, aveva cercato di capire la sua logica, s’era immedesimata, aveva fatto del suo meglio per assecondarlo, fino al giorno in cui aveva realizzato che suo figlio era ormai andato oltre, che aveva imboccato la via del non ritorno.
Aveva tentato per mesi, senza troppa convinzione a dire il vero, di riportarlo alla realtà, alle cose contingenti, alla vita comune, quella in cui è contemplato e accettato anche l’errore e l’occasionale disordine, ma ben presto si era dovuta rendere conto che suo figlio deprecava e condannava senza appello quella vita.
Intimorita dalle reazioni sempre più esagerate e folli di suo figlio e stanca delle continue osservazioni e rimproveri sulle sue presunte imperfezioni, sulle sue dimenticanze, sulle sue innocue sviste, al culmine di una ennesima lite su una sciocchezza irrilevante, senza neanche discuterne con lui né pensarci un attimo di più, aveva messo in valigia il minimo indispensabile e se ne era andata.
Ovunque, ma lontano da quel figlio “paranoico” dell’ordine e della perfezione. Era malato, lo sapeva, qualcosa era andato in tilt dentro di lui. Si era fissato, era ossessionato dall’ordine meticoloso. Forse non era pericoloso, ma lei non ci sarebbe rimasta neanche mezzo secondo in più da sola con lui. Ormai la spaventava. Che se la cavasse da solo. Che si mettesse in ordine e a posto ogni cosa da solo. Forse gli sarebbe passata l’ossessione, si sarebbe reso conto che stava esagerando, sarebbe tornato in sé. Si sarebbe ridimensionato e responsabilizzato.
Per questo non ne aveva parlato a nessuno, nemmeno con il medico curante. Che dirgli, dopotutto, che suo figlio era “troppo ordinato?”. Il medico avrebbe sorriso e
le avrebbe detto: “Beata lei, signora! Sapesse in quanti lamentano il problema opposto!”
Virgil, almeno apparentemente, aveva preso la sua partenza con molta filosofia. Un elemento foriero di disordine e caos, quale era sua madre, si era tolto dai piedi! Un bel sollievo per lui! Adesso avrebbe tenuto tutto sotto controllo al cento per cento, e ogni cosa finalmente sarebbe stata “perfetta”.
Non si aspettava certo che i vicini e praticamente tutto il villaggio si interessassero tanto a lui e a sua madre ma, fortunatamente, quell’odiosa situazione era durata poco, anche perché lui, abilmente, s’era adoperato in tutti i modi per troncarla sul nascere.
Cosa ne poteva capire questa povera, piccola, gretta, ignorante gente della perfezione, dell’armonia suprema, dell’ordine? La “piccola gente”, come la chiamava lui, era superficiale, non vedeva oltre la punta del proprio naso.
Per la “piccola gente” una cosa valeva l’altra e nessuno, era sicuro, si soffermava neanche un secondo a riflettere sul perché delle cose, sul senso della loro disposizione, sul senso delle loro differenze e delle loro assonanze e dissonanze, sulle loro armonie e disarmonie. La gente viveva nel caos, nel disordine mentale, nella confusione di oggetti e concetti: viveva senza coerenza, senza punti di riferimento, sempre pronta a compromessi pur di non esercitare la fatica del minimo controllo, della minima disciplina su se stessa.
Persino sua madre, da lui sempre stimata come un essere “se non perfetto, quasi perfetto” grazie ai sui consigli, persino lei era scesa a compromessi. Non era stata in grado di autodisciplinarsi, aveva trasgredito le sue istruzioni, i suoi consigli. Aveva scelto il caos, il disordine mentale, l’incoerenza. Li aveva preferiti a lui, essere “perfetto”, che l’avrebbe aiutata a diventare “perfetta!”.
* . * . * . * . *
No, sua madre non gli mancava affatto, stava pensando Virgil quella mattina,
mentre finiva di fare ordinatamente colazione. Anzi, al contrario, era felice di non essersi più dovuto occupare di lei. Era diventata così disattenta, così disubbidiente, così ribelle negli ultimi tempi della loro convivenza, che gli aveva dato parecchio da fare il riportarla all’ordine. Se avesse continuato a sfidarlo, Virgil avrebbe dovuto prendere dei seri provvedimenti nei suoi confronti. Anche drastici, se necessario. E a quel punto, anzi, li aveva ritenuti ormai necessari.
Fortunatamente sua madre se ne era andata in tempo. Questo era avvenuto già da 10 anni!
Virgil aveva ora 48 anni. Era, o sembrava, un uomo maturo, non più un giovanotto come allora, ma la sua maturazione era stata senz’altro singolare.
La sua attività era divenuta sempre più frenetica, sempre più ossessiva, per non dire parossistica. Passava in rassegna ogni giorno, e più volte al giorno, ogni oggetto della sua casa. Controllava e ricontrollava che tutto fosse nel posto giusto, nel giusto ordine, nella giusta sfumatura e, quando la logica gli dava qualche nuovo suggerimento, Virgil spostava e ri-predisponeva tutto seguendo il nuovo schema, di volta in volta preoccupantemente più iperbolico.
La sua “forma mentis”, che una volta era stata poco più che lineare, logica e razionale anche per una persona afflitta dal pallino dell’ordine e della precisione, come Hercule Poirot, per esempio, nel tempo e nell’intricarsi dei suoi percorsi mentali, ormai trasformati in veri e propri labirinti mentali, era diventata rocambolesca.
La “paranoia” mentale era subentrata alla logica e alla razionalità.
Apparentemente e dal di fuori aveva continuato la sua quotidiana routine di lavoro, casa e chiesa, da scapolone sobrio, educato, gentile, magari introverso e un bel po’
inibito, comunque innocuo, ma dentro di sé era irrequieto, febbrile, furente, incandescente, rancoroso nelle sue esasperazioni.
Solitario e silenzioso come sempre, ma ora più cupo e rintanato in sé, osservava e scrutava con occhio critico e severo, da capo a piedi, i suoi vicini e quanti gli erano intorno, rimuginando sulle imperfezioni, le manchevolezze, le sconvenienze, le dissonanze, l’incoerenza che questi emanavano ai suoi occhi.
E in lui, che per tanti anni era stato gentile, educato, riservato e discreto, montava la rabbia contro questa piccola comunità ignorante, gretta e superficiale che si vendeva al caos e al disordine mentale e si allontanava sempre più dall’armonia e dalla perfezione.
Occorreva fare qualcosa per rimettere in riga questa gente smidollata. Un po’ di polso, un po’ di disciplina, un po’ di punizioni esemplari. Ci volevano le maniere dure, drastiche.
Questa volta non sarebbe stato tenero come con sua madre, che aveva potuto andarsene senza affrontare la sua giusta punizione. Questa volta non avrebbe sottovalutato la situazione, non avrebbe fatto errori. Sarebbe stato intransigente, “perfetto”. Avrebbe usato tutto il suo carattere e la sua volontà ferrea. Avrebbe punito una per una tutte queste persone, perché l’ordine porta alla perfezione, l’ordine porta alla coerenza e all’armonia. Avrebbe agito drasticamente.
Per primi avrebbe severamente punito, come esempio per gli altri, i “quasi perfetti”, quelli come sua madre, perché subdoli e traditori. Ne aveva individuati alcuni, specialmente tra i frequentatori della parrocchia: anime nere, che prima ti assecondano e poi ti colpiscono alle spalle, proprio come sua madre.
Poi si sarebbe occupato degli smidollati, dei deboli, che nonostante avessero sperimentato la sublime armonia dell’ordine erano poi tornati, per pigrizia, a cedere alle volgari lusinghe del caos.
Infine, gli altri: i disordinati cronici, i caotici irrecuperabili….
D’accordo, era un gran lavoro, ma ce l’avrebbe fatta. Pensando, riflettendo con calma, un’idea logica e funzionale gli sarebbe sicuramente venuta, per una “sistematica, ordinatissima eliminazione”.