Di Daniela Piesco Direttore Responsabile
Non è stata una semplice serata letteraria, ma un’autopsia dell’anima. Nell’incanto raccolto della biblioteca comunale di Benevento, nell’ambito della curata rassegna di Nicola Sguera, Antonella La Frazia ha compiuto un atto di coraggio raro: ha dischiuso i cancelli del proprio mondo interiore, mostrando come dalla cenere del dolore personale possa nascere una poesia potente e socialmente necessaria. Sguera, con la perizia di un archeologo delle emozioni, ha guidato il pubblico in un viaggio attraverso le tappe di una rinascita artistica e umana.
Il racconto è partito dalle origini, da una bambina che già alle elementari scriveva poesie e un primo, acerbo romanzo a 12 anni. Ma la vita, spesso, interrompe i sogni. Antonella ha svelato, con una rara e commovente sincerità, un “abisso personale” causato da eventi traumatici, tra cui la perdita di una figlia. “Mi sono allontanata da quello che mi piaceva fare , ha confessato , c’era quello che dovevo fare”. Quel periodo di oblio forzato è terminato solo quando ha compreso di dover reclamare la propria esistenza: “Mi sono ricordata che esistevo”. Il ritorno alla scrittura nel 2016 con “Donne vicoli e fuoco” non è stato un semplice hobby ripreso, ma l’unico modo per risalire alla luce. Il tatuaggio della fenice sul braccio non è un ornamento, è un sigillo di verità.
L’analisi delle sue opere ha disegnato un percorso chiarissimo. La prima fase, intima e catartica, comprende le raccolte “Donne vicoli e fuoco” e “E come la Fenice…”. Sono opere in cui, come ha spiegato l’autrice, “si parla di me”, un viaggio necessario per “lasciarsi definitivamente alle spalle il passato”. La lettura di testi come ‘Oggi sono in viaggio’ ha mostrato una poetica fatta di immagini potenti e di un’angoscia che si fa materia: “Rimane un fritto sapore di ferro in bocca / e rostribuli che gracchiavano nel cortile”.
Con “Donne senza ali” (2018) e il romanzo breve “I veli delle donne”, la prospettiva si allarga irrevocabilmente al sociale. La prima è una galleria di ritratti femminili, “donne vive” come l Maria, la “gattara” o la vittima di femminicidio Filomena. Il romanzo, nato con il titolo originale ‘Poi venne il vento'( modificato da esigenze editoriali), è un viaggio on the road in camper che diventa un coro polifonico di storie di violenza, riscatto e solitudine. La svolta si consolida con “Come fiori a seccare” (2022), dove “la poesia sociale ha il netto sopravvento”, arrivando alla proposta per il Premio Strega Poesia.
Il momento di più alta intensità è arrivato con il monologo teatrale “Io sono donna”. Antonella, da attrice consumata, ha dato voce a un’invocazione e a un atto d’accusa. La sua performance ha attraversato i secoli di soprusi e pregiudizi con una forza primordiale:
“Io sono prigioniera di quegli occhi, puntati con la canna di un fucile sulla mia schiena… Mi dicono che io non sono al mio posto. Sì. Fermateci al nostro posto. Come un quadro appeso al muro, come un cagnolino al guinzaglio”.
Per concludere con la dichiarazione di un’esistenza che si autolegittima:
“Grazie a Dio sono una donna? No. Grazie a me, ancora viva”.
Un applauso liberatorio e commosso ha coronato un momento di pura, cruda verità.
Altrettanto significativa è stata la presentazione de “Il posto di Nenè” (2023), raccolta di racconti dedicata ai “non eroi”. Figure realmente esistite, dimenticate dalla Storia : dai Valani, bambini-schiavi affittati per un sacco di grano, ( nella centralissima piazza Duomo ,Ricorda Sguera)a Maria Giovanna, la donna del 1841 che, impazzita per non poter avere figli, tentò di sostituirsi alla Madonna in processione. La lettura di questo brano, di un realismo magico e doloroso, ha dimostrato la sua capacità di tessere la Storia con le microstorie, restituendo dignità letteraria a chi non l’ha mai avuta.
Lo sguardo al futuro ha rivelato un romanzo distopico scritto durante la pandemia, un’opera che la stessa autrice definisce “politico” e non fantascientifico. Un libro inquietante che immagina un colpo di stato globale di estrema destra e la creazione di una nuova lingua “senza emozioni”.
“Vedendo la piega che sta prendendo la società, ha ammesso, mi sono spaventata”.
Un’ulteriore prova della sua capacità di usare la narrativa come strumento di indagine e monito.
La serata si è chiusa, inaspettatamente, in musica. Insieme al compagno, il musicista Ciro Maria Schettino, Antonella ha cantato “Quella Lettera” e una struggente ninna nanna in dialetto sul tempo che passa. Una scelta che non è stato un semplice interludio, ma la conferma della sua filosofia artistica: unire i linguaggi per “entrare più facilmente nei cuori della gente”.
Assistendo alla performance di Antonella La Frazia, non si può non constatare la rara completezza del suo profilo d’artista. Ella incarna una transizione generazionale nella letteratura di impegno: non più l’intellettuale che scende tra il popolo, ma una voce che proviene da quel mondo di sofferenze e lo racconta dall’interno, con la precisione del cronista e il pathos del poeta.
La sua evoluzione dall’intimo al sociale non è una mera scelta tematica, ma una necessità biologica. È la prova che la scrittura, per essere autenticamente “impegnata”, deve prima essere “guarita”. Le sue prime raccolte sono la decontaminazione della ferita; le successive sono la lotta per impedire che quella stessa ferita venga inflitta ad altri.
Il suo lavoro sui “non eroi” è di un’attualità bruciante. In un’epoca di monumenti e narrazioni ufficiali, La Frazia restituisce una memoria “altra”, fatta di voci sommesse e corpi negati. La sua prosa, come ha sottolineato, sta diventando sempre più “visiva”, cercando una sintesi potente tra l’immediatezza dell’immagine poetica e la profondità dell’indagine narrativa.
La fusione di poesia, teatro e musica non è un esperimento, ma l’espressione naturale di un’urgenza comunicativa totale.
Antonella La Frazia non vuole solo essere letta; vuole essere sentita, vissuta.
È un’artista che ricorda alla critica e al pubblico che la letteratura, quando è grande, non abita solo le pagine di un libro, ma si fa corpo, voce e suono. È una delle voci più necessarie e autentiche del panorama meridionale e nazionale, perché la sua arte non è una finzione: è una testimonianza, è una resurrezione.
In ultimo.
Un Infinito Grazie a Nicola Sguera
Scrivere un semplice “grazie” sarebbe riduttivo.
A Nicola Sguera va un gratitudine infinita, un sentimento che si misura con la stessa, sconfinata ampiezza della cultura che lui con tanta passione promuove.
Questo invito non è stato un semplice atto di cortesia. È stato un gesto che apre la mente e il cuore, una chiave che ha girato nella serratura di un mondo di voci, storie e verità che altrimenti rischierebbero il silenzio. È un arricchimento che non si limita all’accumulo di nozioni, ma che scava nell’anima, che modifica la prospettiva, che costringe a sentire e a pensare con un’intensità nuova.
Grazie, Nicola, per il tuo instancabile, viscerale impegno nel custodire e valorizzare una cultura meravigliosa , fatta di poesia che è sangue e terra, di narrazioni che profumano di verità , e che, è un dato di fatto, resta patrimonio di pochi, eletti. Non per snobismo, ma per la sua natura stessa: è una cultura che richiede ascolto profondo, che parla un linguaggio dell’anima che non tutti sono disposti o in grado di decifrare. La tua opera è un faro potente che illumina questo “gioiello di nicchia”, rendendolo accessibile a chi ha l’umiltà e la curiosità di avvicinarsi.
Questo non è piaggeria. È riconoscenza professionale per chi, come te, fa della cultura non uno spettacolo, ma un rito necessario. Un atto di amore per le parole che contano, per le storie che lasciano il segno.
Con stima e sincera ammirazione
