Non è nostalgia. È la vertigine di chi ha perso l’unico che sapeva guardare dove faceva male
Cinquant’anni senza Pier Paolo Pasolini e ancora non abbiamo smesso di invocarlo come un santo laico, di tirarlo per la giacca da una parte e dall’altra, di chiedergli cosa direbbe, cosa penserebbe, come se bastasse evocarlo per sentirci meno soli in questo presente che lui aveva già visto arrivare. Ma forse è proprio questo il punto: continuiamo a tornare a Pasolini non per celebrarlo, ma perché senza di lui ci siamo persi.
La notte tra l’1 e il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia, non si è consumato solo un omicidio efferato. Si è chiusa una stagione in cui in Italia era ancora possibile pensare contro, parlare contro, esistere contro senza finire immediatamente catalogati, sterilizzati, trasformati in icona innocua. Pasolini era insopportabile perché era libero. E la sua libertà non era quella comoda, da salotto, fatta di trasgressioni estetiche e provocazioni calibrate. Era la libertà feroce di chi non deve niente a nessuno, di chi non ha padroni da compiacere né pubblico da accontentare.
Per questo oggi tutti lo vogliono. La destra conservatrice lo cita per le sue parole sull’aborto, ignorando volutamente che quelle stesse parole nascevano da una critica spietata al potere che voleva controllare i corpi. La sinistra progressista lo celebra come icona gay e poeta civile, dimenticando che li avrebbe massacrati per la loro acquiescenza al consumismo e alla religione del progresso. I cattolici lo rivendicano per il suo amore per il Vangelo, senza ricordare che considerava la Chiesa gerarchica un tradimento di Cristo. Tutti lo tirano dalla loro parte, e proprio questo è il segno che nessuno l’ha davvero capito.
Perché Pasolini era innanzitutto un eretico. Non nel senso romantico del termine, ma in quello più radicale: uno che mette in discussione il dogma, qualsiasi dogma. Comunista espulso dal PCI, intellettuale che difende i poliziotti contro gli studenti del ’68, omosessuale che rifiuta la ghettizzazione identitaria, anticlericale innamorato del sacro. La sua coerenza non stava nelle posizioni – spesso contraddittorie, spesso urticanti – ma nello sguardo: sempre rivolto ai margini, sempre dalla parte degli ultimi, sempre contro il potere. Qualsiasi potere.
Ed è proprio questo che oggi ci manca disperatamente. Pasolini aveva capito prima e meglio di chiunque altro che il vero fascismo del dopoguerra non sarebbe arrivato con le camicie nere e i manganelli, ma con la televisione commerciale, con l’omologazione dei desideri, con la trasformazione degli italiani da popolo complesso e contraddittorio in massa di consumatori docili. “La televisione è il più potente mezzo di coercizione e persuasione che sia mai esistito”, scriveva. E se avesse visto i social media, se avesse visto come abbiamo imparato a sorvegliare noi stessi, a censurarci da soli, a trasformare ogni pensiero in contenuto e ogni emozione in like?
Ecco perché “Io so, ma non ho le prove” continua a risuonare come un mantra inquietante. Non solo per la sua morte – quel massacro all’Idroscalo che forse non conosceremo mai davvero, quella verità processuale che ha il sapore di una menzogna di Stato – ma per tutto quello che ha rappresentato. Pasolini sapeva. Sapeva del potere occulto, delle trame, della corruzione endemica. Sapeva e lo diceva, con quella lucidità feroce che lo rendeva pericoloso. E forse proprio per questo è morto.
Ma il vero scandalo non è la sua morte. Il vero scandalo è che cinquant’anni dopo non abbiamo più nessuno che sappia guardare con quella stessa intensità. Abbiamo opinionisti, influencer, intellettuali organici, dissidenti di professione. Non abbiamo più eretici. Non abbiamo più chi accetta di pagare il prezzo della solitudine per dire la verità.
Pasolini aveva ventitré anni più di Moravia quando morì, e Moravia gli sopravvisse diciannove anni. Eppure quando gridò “Hanno ammazzato il Poeta”, sapeva che non era retorica: era un epitaffio per un’intera epoca. Dopo di lui, l’intellighenzia italiana si è rapidamente addomesticata, integrata, normalizzata. Abbiamo imparato a parlare senza dire, a criticare senza ferire, a indignarci senza conseguenze.
Per questo continuiamo a chiederci cosa direbbe oggi. Non perché lui avesse le risposte – spesso non le aveva nemmeno allora – ma perché almeno poneva le domande giuste. Quelle che fanno male, quelle che ci costringono a guardarci allo specchio. E forse è proprio questo l’eredità più scomoda: Pasolini non ci ha lasciato soluzioni, ci ha lasciato interrogativi. E noi, che di interrogativi non sappiamo più che farcene in questa epoca di risposte preconfezionate e verità algoritmiche, continuiamo a invocarlo come si invoca un fantasma.
Ma i fantasmi non tornano. E forse è meglio così. Perché se Pasolini tornasse oggi, probabilmente ci guarderebbe con quella sua aria tra il pietoso e il feroce, e ci direbbe che abbiamo ottenuto esattamente il mondo che meritiamo. Un mondo in cui la sua poesia è diventata traccia di maturità – proprio lui che la maturità l’avrebbe abolita – e in cui il dissenso è diventato un brand da monetizzare.
Cinquant’anni dopo, la vera domanda non è cosa direbbe Pasolini. È perché non abbiamo il coraggio di dirlo noi.

 

 

pH Pixabay senza royalty

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