Spiagge sommerse e politica distratta: l’Italia che affonda nel silenzio
Entro il 2050 un quinto delle spiagge italiane rischia di sparire sotto l’acqua. Non è la previsione di un film apocalittico, ma il risultato del rapporto “Paesaggi sommersi” elaborato dalla Società Geografica Italiana. E se nel 2100 la proiezione arriva a un drammatico 40% di coste sommerse, il perimetro del disastro si allarga ben oltre l’immaginazione: ottocentomila persone a rischio ricollocazione, porti e infrastrutture compromessi, aree agricole salinizzate, lagune e delta minacciati.
L’Alto Adriatico sarà tra le prime vittime, seguito dalla costa tirrenica tra Toscana e Campania, il Gargano, le aree di Cagliari e Oristano. L’Italia, Paese che si specchia nel mare e dal mare trae identità, cultura, turismo e ricchezza, rischia di perdere non solo un confine geografico, ma una parte della propria anima.
Il dato più inquietante è che la crisi climatica si manifesta ormai come una crisi territoriale e politica. Ogni centimetro di mare che avanza racconta la somma di decenni di inerzia istituzionale, di difese costiere improvvisate, di cementificazioni scambiate per progresso. L’erosione marina non è una calamità naturale: è una conseguenza diretta di un modello di sviluppo miope, dove la logica del profitto immediato ha prevalso sulla pianificazione sostenibile.
Le barriere artificiali, che oggi proteggono un quarto delle coste basse italiane, offrono un’apparente sicurezza ma aggravano la vulnerabilità nel lungo periodo. Si è difeso il turismo stagionale sacrificando l’equilibrio ecologico; si è costruito dove non si doveva costruire, in nome della “valorizzazione” del territorio; si è ignorato che il mare non negozia.
La governance ambientale italiana, come ha ammesso lo stesso ministro per la Protezione Civile Nello Musumeci, è «frammentata in troppe competenze». È un’ammissione grave, ma sincera: un Paese che ha venti enti per ogni emergenza e nessuna regia strategica non può affrontare una trasformazione climatica di questa portata. Servirebbe una legge organica sul consumo del suolo, ma da oltre un decennio giace in Parlamento come un relitto arenato.
Eppure l’Italia, leader nell’economia circolare e nella riduzione delle emissioni, continua a scindere la retorica ecologista dalla realtà territoriale. Si celebrano le energie rinnovabili e l’agricoltura biologica, mentre si consuma suolo agricolo, si costruiscono nuove colate di cemento e si lascia che i piani di gestione delle aree protette restino lettera morta. È la politica del giorno per giorno, incapace di proiettarsi oltre il ciclo elettorale.
Il Rapporto della Società Geografica Italiana non è solo un monito scientifico: è un atto d’accusa verso un’intera visione dello sviluppo nazionale. L’Italia del dopoguerra ha urbanizzato le coste, piegato i fiumi, sacrificato i delta. Oggi quella stessa eredità ritorna come un conto salato. Rinaturalizzare — come suggerisce il presidente Claudio Cerreti — non è un’utopia ambientalista, ma l’unica strategia di sopravvivenza possibile.
Serve però un cambio di paradigma politico e culturale: governare il clima significa governare il territorio, e quindi le scelte economiche, urbanistiche e sociali che lo modellano. Non basta più parlare di “transizione ecologica”: occorre un patto nazionale per la resilienza climatica, che coinvolga Comuni, Regioni, imprese e cittadini, con investimenti strutturali e una pianificazione unitaria.
Perché se non saremo noi a ridisegnare le nostre coste, sarà il mare a ridisegnare l’Italia — e a quel punto, non ci sarà più nulla da difendere, né da rinaturalizzare.
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