di Carlo di Stanislao 

 

«L’opera d’arte è sempre confessione, anche quando pare impersonalità.»
— Albert Camus

Thomas Mann fu uno degli scrittori più importanti del Novecento europeo, ma anche uno degli uomini più enigmatici, scissi e profondamente moderni. È stato il cantore della borghesia colta, della disciplina formale, dell’equilibrio tra intelletto e istinto. Ha costruito un’opera imponente, fatta di romanzi-mondo come I BuddenbrookLa montagna incantataDoctor Faustus, e racconti che sfiorano il mito, come La morte a Venezia. Ma dietro la monumentalità della sua scrittura, si celava una vita segreta, un desiderio inconfessato, una frattura interiore che ha nutrito silenziosamente la sua arte.

L’immagine pubblica di Thomas Mann era quella dell’intellettuale integerrimo: sposato con Katia Pringsheim, padre di sei figli (tra cui Erika e Klaus, scrittori anche loro), vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1929, difensore dei valori liberali contro il nazismo. Ma nei suoi diari personali, rimasti segreti fino al 1975, emerge un’altra figura: un uomo tormentato da desideri omoerotici mai espressi apertamente, ma onnipresenti nei suoi sogni, nei suoi appunti, nelle sue parole intime. Mann viveva in uno stato di tensione costante tra l’immagine pubblica che coltivava e il mondo interiore che cercava di domare.

Questa tensione si riflette in modo sublime nella sua scrittura. I suoi personaggi sono spesso attraversati da conflitti morali, attrazioni represse, inquietudini metafisiche. In La morte a Venezia, Gustav von Aschenbach, scrittore solitario e disciplinato, si innamora perdutamente del giovane Tadzio in una Venezia sospesa tra arte e disfacimento. La bellezza del ragazzo non è solo estetica: è simbolo di un desiderio assoluto, mortale, distruttivo. In quel racconto si concentra tutta la vertigine dell’amore non consumato, dell’identità trattenuta, dell’abisso che si apre quando l’uomo colto cede alla propria parte dionisiaca.

Ma Tadzio è reale. Nei diari, Mann racconta di un viaggio a Venezia nel 1911, dove incontrò davvero un giovane polacco, Władysław Moes, che divenne l’ispirazione per il personaggio. Questo rende ancora più evidente la natura ambigua e potentemente autobiografica dell’opera. La letteratura diventa per Mann un campo di trasformazione del desiderio, uno spazio in cui ciò che non può essere vissuto può essere sublimato, reso forma, reso mito.

L’opera basta a se stessa?

La domanda allora diventa inevitabile: quanto della vita di un artista deve entrare nella lettura della sua opera? È possibile — o auspicabile — leggere un libro senza sapere nulla di chi l’ha scritto? O l’opera è indissolubilmente legata alla carne, al sangue, ai sogni di chi l’ha generata?

Su questo nodo si affrontano due delle più importanti figure intellettuali del Novecento: Roland Barthes e Pier Paolo Pasolini.

Roland Barthes, nel celebre saggio La morte dell’autore (1968), sostiene che l’opera d’arte deve essere liberata dal giogo della biografia. L’autore, una volta che scrive, si cancella. Il testo vive di vita propria, ed è il lettore a dargli significato. Ogni riferimento alla vita dell’autore è per Barthes una distrazione, un tentativo reazionario di bloccare il flusso interpretativo. Per capire un’opera, non bisogna più chiedersi “cosa voleva dire l’autore?”, ma “cosa significa per me questo testo?”.

Pasolini, al contrario, è l’autore che più ha fuso vita e opera in un tutt’uno inseparabile. Poeta, regista, intellettuale scomodo, non ha mai nascosto la propria omosessualità, anzi, l’ha fatta detonare nella sua arte. Ogni poesia, ogni film, ogni articolo è parte della sua autobiografia. La sua vita è stata letteratura, e la sua letteratura un’estensione della vita. Per Pasolini, togliere l’autore dall’opera è un atto di vigliaccheria intellettuale: tutto ciò che si scrive nasce da un corpo, da un’esperienza, da una ferita. Chi finge l’oggettività della forma spesso nasconde un’omertà ideologica.

La maschera e la ferita

Nel caso di Thomas Mann, le due visioni si incrociano in modo affascinante. La sua scrittura ha la precisione formale di un’opera autonoma, costruita con metodo, con intelligenza, con cultura. Ma quella forma è costruita contro qualcosa: contro il caos, contro il desiderio, contro il disordine della propria identità. Se Barthes legge l’opera come campo aperto, e Pasolini come biografia trasposta, Mann sembra costruire una terza via: l’opera come maschera perfetta che tradisce il volto dietro la stoffa.

Conoscere i desideri segreti di Mann non riduce la sua grandezza. La amplifica. Non svuota il mistero dell’opera, lo rende più profondo. Non bisogna leggere solo con gli occhi dell’autore, ma ignorarne la carne, la fragilità, le ombre, significa privarsi di una dimensione essenziale. La scrittura nasce sempre da una frattura. La perfezione di Mann è una diga contro un’inondazione. E l’inondazione, oggi, possiamo vederla.

Mann non è stato un ipocrita. È stato un uomo del suo tempo, che ha cercato di conciliare ciò che in lui era inconciliabile. La sua grandezza è proprio in questa tensione, che non ha mai risolto ma che ha saputo trasformare in arte.

E in fondo, come scrisse lui stesso, ogni forma è una forma di desiderio.

Per questo, oggi, alla luce di ciò che sappiamo, le sue opere brillano di una luce più complessa, più umana. Non bisogna leggere Mann per cercare il “segreto” della sua vita. Bisogna leggerlo per capire come quel segreto ha fatto nascere un’arte che parla ancora a tutti noi, proprio perché è fatta di conflitto, di maschera, di rivelazione parziale. Proprio perché è vera.

E per chiudere, come spesso accade con la letteratura vera, non bastano le analisi, le teorie, le citazioni. Serve anche il silenzio. O la poesia. Per questo, affidiamo l’ultima parola a Italo Nostromo, poeta contemporaneo, che con versi scarni e disillusi riesce a evocare la stessa tensione tra forma e abisso che animava Mann.

Italo Nostromo — “Architrave”

Non ciò che scrivo
ma ciò che trattengo
ha il peso
della mia voce

Le frasi sono travi
ma i silenzi
reggono il tetto

La bellezza
è un vuoto ben disegnato
una porta chiusa a chiave
che suona
come una promessa

Chi legge
ascolta l’eco
ma non vede la grotta
eppure
è lì che ho vissuto

Thomas Mann ci insegna che la grande arte nasce non dalla perfezione, ma dalla lotta con ciò che non può essere detto. E che un artista è ciò che scrive, ma anche — forse soprattutto — ciò che tace.

 

pH Wikipedia

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