L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco

Prendo spunto dalle parole taglienti di Umberto Vattani sulla nascita della Collezione Farnesina e dalla riflessione di Antonio Spadaro che le fa da eco, non per aggiungere un semplice commento, ma per gridare qualcosa che sento bruciare: parlare d’arte non è un lusso da salotto, è un atto necessario, urgente, quasi di resistenza. E sì, lo faccio con passione, perché quando si tocca il nervo scoperto del vivere, l’entusiasmo non è una scelta, è una conseguenza inevitabile.

Vattani ci ha mostrato, nel cuore grigio di un ministero “fascista” e dimenticato, una verità scomoda: l’arte non decora. Irrompe. Come quel monolite in 2001: Odissea nello spazio che lui stesso evoca, il bronzo di Consagra piantato nel crocevia degli ascensori della Farnesina non ha abbellito. Ha sconvolto. Ha costretto diplomatici navigati, funzionari immersi nei protocolli, a fermarsi. A sentire il peso di uno sguardo muto che chiedeva: tu, cosa vedi? Chi sei, qui?

Parlare d’arte è vitale, oggi più che mai, perché compie un miracolo concreto e scomodo. È filosofia fatta carne, metallo, colore. Agisce dove le parole diventano rumore di fondo, dove tutto scivola nell’indifferenza.

Non è un caso che le combustioni di Burri parlino della violenza sulla natura con una forza che nessun rapporto ambientale riesce a trasmettere. Non è un caso che le bandiere sbiadite di Ettore Consolazione siano presagi più eloquenti di mille analisi sui nazionalismi striscianti. Non è un caso che i volatili trafitti di Pietro Ruffo cantino un’elegia sulla libertà precaria che ci inchioda allo stomaco. L’Etrusco di Pistoletto, con quel vuoto angoscioso tra la mano antica e il nostro riflesso immediato, non è pura estetica: è un cronometro che ticchetta sul baratro. L’arte pone le domande che contano, senza filtri, senza mediazioni, senza il lusso della distanza.

Le opere più scomode della Farnesina, come i Totem martoriati di Mirko o il senzatetto digitale di Iaconesi e Persico, non sono decorazioni da salotto. Sono accuse. Squarciano il velo dell’indifferenza, mettono sotto i riflettori le ingiustizie, le emarginazioni, le ferite aperte del mondo. Ci costringono a guardare. Ci costringono a sentire. Quella luce che si spegne ogni volta che qualcuno esce dalla povertà estrema non è poesia. È una vergogna collettiva. E l’unico augurio degno è che quell’opera possa un giorno spegnersi per sempre.

Parlare di questo non è fare “critica d’arte”. È tradurre un terremoto interiore. È raccontare come un frammento di materia, un gesto pittorico, un’installazione spoglia possano diventare chiavi per decifrare il caos del presente. Vattani e la sua rivoluzione silenziosa alla Farnesina lo dimostrano: l’arte ha bisogno di spazi vivi, non di teche. Ha bisogno di essere attraversata, sfiorata, respirata nel quotidiano, negli uffici, nelle strade, non solo nei santuari consacrati. E per farlo, ha bisogno di essere raccontata con la stessa urgenza con cui si segnala un incendio.

Parlare d’arte così, con cognizione e fuoco interiore, significa restituirle la sua dignità di linguaggio primario, essenziale quanto la filosofia o la scienza per navigare l’umano. Significa smascherarne la forza politica sotterranea, quella che non urla nei comizi ma scardina le certezze, mette in discussione il potere, mostra le crepe nella facciata. Significa demolire i ponti levatoi che separano l’arte dalla vita quotidiana. Rendere l’esperienza artistica accessibile non significa banalizzarla, ma far capire che quel blocco di bronzo o quel graffio sulla tela non sono enigmi per pochi eletti, ma grimaldelli per aprire porte della percezione che credevamo murate. Significa anche tenere accesa una fiamma. Perché opere che parlano di distruzione ma anche di bellezza ostinata, di ingiustizia ma anche di resistenza umana, sono anticorpi contro il cinismo. Ci ricordano che un altro sguardo è possibile. Che la trasformazione, intima e collettiva, può partire da uno choc estetico.

Ecco perché ne parlo. Con passione. Perché l’arte è una delle poche cose che ci strappa ancora dall’anestesia. Ci costringe a sentire, a pensare, a metterci in gioco. Perché, come ha dimostrato quel palazzo oltre il Tevere trasformato in un campo di forza umano, l’arte non è un lusso. È un atto di resistenza. Parlarne non è un vezzo. È accendere un fuoco. E in tempi che amano l’oscurità, ogni fiamma, ogni parola sincera, ogni opera che ci inchioda, è un atto di sopravvivenza. La Farnesina ne è la prova bruciante. Il monolite è qui, ora. Sta a noi attraversarlo.

 

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