Quando una donna è “troppo”, la società trova sempre un modo per zittirla. Troppo intelligente, troppo libera, troppo scomoda. Giovanna di Castiglia, passata alla storia come Giovanna la Pazza, non fu pazza. Fu vittima di una narrazione costruita per escluderla dal potere. La sua storia è un caso esemplare per comprendere come il diritto e la società abbiano spesso agito di concerto per controllare e silenziare le donne.
Una regina che doveva tacere
Giovanna nacque il 6 novembre 1479, figlia dei Re Cattolici, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona. Colta, sensibile, parlava latino, scriveva poesie. Ma soprattutto, era erede legittima al trono di Castiglia. A 16 anni fu costretta a sposare Filippo “il Bello”, che la tradiva apertamente. Giovanna reagiva con forza e dignità. Ma proprio questa sua ribellione venne definita follia.
Alla morte del marito, avrebbe dovuto regnare. Ma il padre, temendone il potere, la fece rinchiudere in un monastero. Anni dopo, suo figlio Carlo — futuro imperatore — la dichiarò incapace e le sottrasse ogni autorità, lasciandola prigioniera per il resto della vita. Nessuna perizia, nessuna prova, nessun processo. Solo il peso di una parola: pazza.
La follia come dispositivo giuridico-sociale
Nel diritto del tempo — e in parte ancora oggi — la “pazzia” era una categoria senza definizione oggettiva. Bastava mostrare comportamenti emotivi, uscire dai ruoli attesi, opporsi all’autorità maschile. La follia diventava così una comoda giustificazione per escludere una donna dal potere, toglierle diritti, proprietà, voce pubblica.
Giovanna non fu mai sottoposta a una valutazione medica indipendente. Nessuna autorità ecclesiastica o giuridica dichiarò ufficialmente la sua insanità mentale. Tuttavia, il potere maschile — prima il padre, poi il figlio — usò quella narrazione per tenerla confinata. Il diritto fu lo strumento con cui si rese “legittima” una detenzione politica e patriarcale.
Donne scomode: un’eredità ancora viva
Oggi non esistono più le torri in cui rinchiudere le donne ribelli. Ma le etichette resistono: isterica, instabile, inadeguata. Il sistema giuridico e sociale continua a patologizzare l’autonomia femminile, specialmente nei contesti familiari, politici e professionali. Le donne che alzano la voce, che chiedono spazio, che rifiutano i ruoli imposti vengono ancora tacciate di “eccesso”.
La storia di Giovanna ci ricorda che la follia può essere una sentenza sociale, non clinica. E che troppo spesso è usata per punire il coraggio femminile.
Conclusione: non pazza, ma prigioniera
Giovanna di Castiglia non fu “la Pazza”, ma “la Prigioniera”. Una donna colta, sensibile e politicamente legittima, imprigionata da un sistema che non poteva tollerare il potere femminile. Riconoscerlo oggi significa restituirle giustizia, ma anche interrogare le strutture contemporanee che ancora oggi escludono le donne con gli stessi, antichi strumenti: la delegittimazione, la medicalizzazione, il silenzio.
Raccontare la sua storia con il linguaggio del diritto e della giustizia sociale è un atto di memoria e di resistenza. Perché “pazza” è spesso solo un altro modo per dire: incontrollabile.
Bibliografia essenziale
– A. Gamberini, Giovanna la Pazza. La storia negata di una regina, Carocci, 2017
– Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW), ONU, 1979
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