Di Antonio Corvino 

Lo spopolamento delle terre di mezzo della nazione italiana è arrivato al punto di non ritorno.
Così almeno sostengono gli estensori del piano strategico nazionale delle aree interne redatto dal dipartimento per le Politiche di coesione e per il Sud della presidenza del Consiglio dei ministri ed approvato nel maggio scorso.
Si potrebbe chiudere la questione con una alzata di spalle e tirare avanti. Dal Dipartimento per le politiche di coesione e per il sud e dal governo ci si dovrebbe aspettare qualcosa di più e magari di diverso.
Lo spopolamento delle terre di mezzo non è un fenomeno recente.
Diciamo che è iniziato negli anni del boom economico, all’indomani della seconda guerra mondiale, allorché i contadini meridionali emigrarono in massa verso il nord del paese e in Europa a trasformarsi in operai e manovali per sostenere con le loro braccia il volo del vecchio continente e quello della parte settentrionale del paese Italia alimentandone il miracolo.
A far data da quel tempo prese avvio l’abbandono delle campagne.
Si produsse dapprima il fenomeno della senilizzazione e della femminilizzazione, poi, complice la politica nazionale di marginalizzazione di una agricoltura scarsamente meccanizzata e parcellizzata oltre che priva di qualsiasi supporto di conservazione/trasformazione/ commercializzazione, quello dell’abbandono.
Troppo vecchia e malandata per sostenerla, soprattutto dopo il fallimento o, se volete, lo scarso successo della riforma fondiaria postbellica.
Ormai dominava l’idea mansholtiana dell’agricoltura estensiva industrializzata, varata dall’allora commissario europeo dell’agricoltura Sicco Mansholt, arrivato dall’Olanda e sposata dall’Europa e fatta propria dal governo italiano interessato a sostenere l’agricoltura padana più che quella mediterranea del Sud
Era il 1968 ed in Europa ed in Italia era già in atto lo spopolamento delle campagne prodromo dello spopolamento delle terre di mezzo .
In campagna ormai si andava per il fabbisogno familiare, per tenere in piedi la tradizione anche e la memoria, il sabato e la domenica e, nella bella stagione, la mattina presto ed il pomeriggio.
Le politiche europee fecero il resto.
Le misure di integrazione dei prezzi delle produzioni meridionali, complici le interessate disattenzioni dei governi nazionali, produssero il risultato di alleviare la vita dei piccoli proprietari favorendo tuttavia le rendite speculative dei grandi attraverso le integrazioni dei redditi che contribuirono a lasciar andare le produzioni al loro destino.
Si arrivò poi agli incentivi per sradicare gli impianti, a partire dai vigneti, e intanto la meravigliosa biodiversità della agricoltura mediterranea spariva dalle scene…salvo ad essere riscoperta di recente dall’Unesco che l’ha dichiarata, 29 marzo 2024, patrimonio dell’Umanità.

Nel frattempo era arrivata anche l’industrializzazione forzata a Sud.
I grandi impianti siderurgici e petroliferi, le grandi centrali elettriche, le produzioni chimiche.
Tutta roba inquinante e mortifera ma che aveva il pregio di sfamare intere città. Ovviamente bisognava pagare un prezzo. E questo prezzo era rappresentato dalla condanna a morte dell’agricoltura meridionale, completamente tagliata fuori dagli orizzonti nazionali.
Solo alla fine degli anni novanta con il tramonto delle vecchie politiche assistenziali europee e nazionali, ebbe inizio il recupero delle produzioni vinicole ed olivicole oltre che cerealicole verso standard di qualità elevate oltre che legate alle tradizioni autoctone. Il resto della produzione mediterranea, a cominciare da quella orticola, anch’essa di grande tradizione e pregio, rimase affidata a cooperative e buone pratiche che non sono mai riuscite a varcare i confini della marginalità.
Intanto la modernità ed il cosiddetto progresso avevano spinto la scolarizzazione di massa e soprattutto avevano alimentato il fenomeno dell’inurbamento della popolazione innescando il processo di emigrazione dei giovani che non erano più contadini e braccianti o manovali ma figure altamente scolarizzate e professionalmente ricercate oltre che intellettualmente pregevoli.
Il fenomeno, soprattutto negli anni più recenti, ha depauperato il Sud delle sue risorse umane migliori che comportavano in aggiunta, beffa unita al danno, un drenaggio anche delle risorse finanziarie pubbliche e private investite per la loro formazione.
Stimando in circa 100.000 unità il numero di giovani diplomati e laureati migrati dal Mezzogiorno annualmente nell’ultimo decennio, è facile quantificare in più o meno 20 miliardi di euro annui le risorse finanziarie spostate da sud a nord, ove si calcoli che per portare alla laurea un ragazzo servono non meno di 200.000 euro.
Partí da lì il progressivo impoverimento di quelle che il governo nazionale chiamava aree interne e Manlio Rossi Doria definiva, da Portici, sito regale divenuto all’indomani dell’unificazione nazionale, sede della gloriosa facoltà di agraria della storica università napoletana Federico Secondo, terre dell’osso secondo uno schema interpretativo che metteva in guardia, ahimè inutilmente, contro i rischi dell’emarginazione dell’economia interna e montana che via via avrebbe comportato l’inurbamento e quindi l’emigrazione della popolazione.
Le statistiche degli ultimi decenni parlano di fenomeni migratori senza precedenti. Circa 100.000, appunto, erano, e sono, i giovani che partivano e partono da Sud ogni anno. La popolazione meridionale si contraeva e continua a ridursi mentre il territorio inaridisce a vista d’occhio come un lago sotto l’effetto di un solleone che provoca evaporazioni senza sosta.
I giovani meridionali migravano verso le metropoli del Nord Italia, dell’Europa e del mondo.
La gente a Sud si concentrava sulle coste oltre che nelle poche metropoli. Ed ebbe inizio l’abbandono delle terre di mezzo che la politica chiamava aree interne e gli economisti, riprendendo la similitudine di Rossi Doria, terre dell’osso.
Da sempre sono mancate, in realtà, le politiche di sostegno di questi territori a contrasto dello spopolamento.
È mancata soprattutto una visione dello sviluppo del Paese che puntasse a creare un sistema territoriale integrato Nord-Sud, montagna-pianura, campagna-città, agricoltura-industria, servizi-innovazione, pubblico-privato.
Negli anni settanta-ottanta i governi pensarono di aver scoperto l’uovo di Colombo.
Era l’epoca della prima globalizzazione.
Si era capito che spostandosi dal centro verso la periferia i costi industriali, grazie al crollo del costo del lavoro, precipitavano, la competitività delle imprese cresceva meravigliosamente e le esportazioni correvano come un cavallo pazzo.
Fu facile considerare il sud alla stregua dei paesi sottosviluppati e si avviarono politiche raffazzonate di incentivazione degli investimenti industriali a sud. Nacquero i cosiddetti distretti industriali che parvero poter regalare a Sud un’insperata stagione di sviluppo.
Fu il massimo delle politiche per le aree interne.
Ovviamente di rilancio delle campagne nemmeno a parlarne e quanto alle terre di mezzo, queste si rivelarono buone per attrarre speculatori e attività inquinanti e senza futuro. Peraltro la globalizzazione allargava i suoi confini sino a comprendere paesi e popoli dell’estrema periferia del pianeta rivelatisi pronti a vendere il proprio lavoro davvero per un piatto di riso.
Conclusione?
Le politiche di sostegno dell’industrializzazione a sud si rivelarono per quel che erano, ossia un fallimento.
Conseguenza?
Il definitivo spopolamento delle terre di mezzo.

Negli ultimi anni, all’indomani della pandemia Covid ed anzi in piena pandemia, mi capitò di unirmi a dei pionieri che presero a rintracciare i vecchi sentieri ed i tratturi nel cuore interno del Sud.
In un paio d’anni percorsi più o meno duemila chilometri tra i monti e le valli, i borghi ed i castelli, i colli e le pianure assolate.
Toccai con mano una bellezza naturale senza confini, un patrimonio architettonico ineguagliato ed ineguagliabile, una ricchezza di saperi antichi da far accapponare la pelle, una memoria ancestrale da illuminare la speranza nel futuro del mondo.
Tutto questo in un paesaggio abbandonato a sé stesso e, ahimè, questo si, privo di speranza.
Incontrai interi paesi divenuti fantasma e ricostruiti a valle o a monte all’epoca del terremoto del 1980.
I paesi abbandonati conservavano un’anima integra quanto splendente sia pure dormiente mentre i nuovi paesi mostravano le caratteristiche dell’anonimato più arido. Tutto rispondeva all’imperativo di spendere, spendere… intanto lassù erano rimasti vecchi ed anziani. Qualche ragazzo resisteva affermando la sua vocazione a restare sul territorio.
Ho incrociato paesini che avevano vissuto il boom dell’industrializzazione senza presente né futuro, fatta di speculazione e scheletri di capannoni abbandonati, fiumi puzzolenti trasformati in discariche mentre i monti venivano caricati di foreste di pale eoliche ed i campi a valle coperti di distese di specchi fotovoltaici.
Sui monti e tra i borghi languivano castelli Federiciani, Angioini, Svevi e Aragonesi superbi quanto inutili e cattedrali la cui ricchezza artistica ed architettonica, al pari dei borghi, urlava per la disperazione senza che nessuno ascoltasse.
Ho attraversato villaggi e paesi che da soli ed autonomamente provavano ad inventarsi una vocazione per affermare la propria volontà di progredire. Vocazione vinicola, vocazione olivicola, orticola, cerealicola e leguminosa, vocazione naturalistica e cento altre possibilità e tutti erano meravigliosamente affascinanti.
Ho incontrato poeti che aveva studiato alle scuole serali e signore anziane che custodivano nelle chiese dei borghi autentici capolavori d’arte. Quelle terre di mezzo urlavano la loro grandezza e custodivano la memoria in attesa di un risveglio…

Il mondo da quando ha preso coscienza di sé e per tutto il tempo in cui l’ha conservata, non ha mai creato diaframmi sui territori prima dell’era contemporanea.
Dalla preistoria il territorio è stato sempre considerato come un unicum senza barriere.
I greci ed i Fenici, i Cretesi ed Alessandro Magno ne celebrarono la sua dimensione unitaria senza diaframmi.
I romani costruirono un impero intercontinentale sull’integrazione territoriale che presupponeva e favoriva anche l’osmosi etnica, sociale, culturale.
I Sanniti ed i popoli italici avevano creato le vie della transumanza per spostare intere comunità dai monti al piano a seconda delle stagioni e Roma costruì su di esse il suo primo sistema viario. I Longobardi elessero a capitale del loro regno del Sud Benevento.
Federico basò sulla unitarietà dei territori la grandezza del suo impero e promulgò le sue Costitutiones da Melfi, non da Napoli o Palermo e Ruggero il Normanno, suo nonno, partì da Cava de’ Tirreni per costruire il regno Mediterraneo e fissò a Caltagirone e Piazza Armerina le sue capitali siciliane.
Adesso era tutto dimenticato se non distrutto.
Dalle cime di quei monti, dal cuore di quei borghi, dall’alto di quei castelli e cattedrali era possibile percepire nettamente il rifiuto della moderna civiltà verso le terre di mezzo ormai considerate inutili, improduttive, buone al massimo per impiantarvi campi fotovoltaici e foreste eoliche.
I collegamenti stradali o ferroviari erano pressoché inesistenti. Ma questo lungi dall’essere una diminutio si rivelava una straordinaria ricchezza.
Il guaio era che lì non esistevano servizi degni di questo nome, lo stesso segnale telefonico era claudicante per non parlare della connessione e della tecnologia digitale.
Eppure in epoca di pandemie montanti e di inquinamento da sovraccarico umano che rendono addirittura necessario il decongestionamento delle aree urbane e delle metropoli, quelle terre di mezzo, se scoperte, avrebbero fatto la felicità dell’intero genere umano e soprattutto della parte giovanile di esso.
Era spontaneo, direi obbligato chiedersi perché le istituzioni pubbliche non valorizzassero quelle terre.
Perché le istituzioni culturali non spostassero in quei borghi ed in quei castelli i loro nodi. Perché le imprese innovative non vi avessero pensato per i loro centri di ricerca.
Perché l’apparato di studio, miglioramento, valorizzazione delle specie agrarie della dieta mediterranea non concentrasse i suoi uffici e le sue ricerche su quei monti ricchi di castelli e borghi e custodi della biodiversità meridionale.
Perché insomma il sistema istituzionale pubblico, il sistema universitario e della ricerca, il sistema delle imprese innovative non avesse spostato lì i suoi gangli vitali e non avesse incoraggiato i suoi giovani ad andarvi restituendo senso alle terre dell’osso in una visione integrata con le terre della polpa?
Ero certo che una volta andati, giovani, ragazzi e ragazze, imprese, istituzioni e mondo intero non se ne sarebbero più allontanati.
Allora perché si preferiva accatastare vite e persone sulle coste, nelle aree urbane, nelle metropoli e nelle megalopoli piuttosto che favorirne il dispiegamento armonioso sul territorio?
Erano queste le politiche da fare per rilanciare le aree interne.
Le politiche mai varate.

Quelle politiche avrebbero innescato processi virtuosi fondamentali anche per il decongestionamento delle grandi aree urbane e per salvaguardare l’anima ancestrale del mondo.
Ma la risposta era facile quanto agghiacciante.
Restituire presente e futuro alle terre di mezzo o alle terre dell’osso avrebbe comportato una interpretazione del mondo rivoluzionaria capace di esprimere una primigenia volontà di essere a fronte della preoccupazione di avere ed apparire.
Su quei monti, in quei borghi, in quelle cattedrali e castelli, in quelle piazze potevi ritrovare l’anima dell’umanità concentrata nello sguardo mite e profondo degli ultimi abitanti.
Essi sapevano cosa fosse il senso del limite e della misura, contrapposti allo spreco ed alla produzione distruttiva, conoscevano la simbiosi con l’universo, il rispetto del giorno e della notte, l’alternarsi delle stagioni.
In una parola lì era possibile ricostruire una umanità a misura d’uomo capace di smascherare la religione del consumismo ed i suoi idoli.
E questo la civiltà metropolitana non poteva consentirlo.
Era questo il motivo fondamentale del fallimento delle cosiddette politiche di sviluppo delle aree interne inutilmente propinate per decenni sino ai tempi attuali.
Non si voleva lo sviluppo delle terre di mezzo né si voleva tenere insieme osso e polpa, si perseguiva l’abbandono delle terre di mezzo, il loro definitivo spopolamento, la loro desertificazione.
E oggi giunge la dichiarazione governativa che quello spopolamento, quella desertificazione sono espressione di processi definitivi ed irreversibili e, quindi, non di politiche di sviluppo si deve parlare ma di politiche di accompagnamento di quei fenomeni. Difficile non cogliere il senso di queste affermazioni.
Tradotte significano incrementare le politiche di produzione enenergetica da fonti rinnovabili. Foreste eoliche e campi fotovoltaici in luogo della biodiversità mediterranea.
D’altronde l’ipotesi di trasformare il Mezzogiorno con le sue terre di mezzo nella centrale energetica europea non è nuova e non nasce con questo governo. Essa ha avuto una lunga gestazione ed ora sembra giunta a maturazione dopo che larghe parti del territorio sono state ormai compromesse e lo spopolamento è diventato appunto irreversibile.

E invece il futuro del mondo è tutto qui.
Se solo lo si volesse davvero quel futuro.
Il guaio è che quel futuro non lo si vuole.
Gli emuli nazionali del cerbero che azzanna il pianeta, superando le remore, invero assai labili dei vecchi governanti, dicono senza giri di parole che è tempo di chiudere con le ipotesi di sviluppo delle cosiddette aree interne.
Diventa così evidente una verità mai contrastata dai molteplici schieramenti succedutisi al governo di questo paese e che oggi, a differenza di ieri, viene affermata apertis verbis chiudendo definitivamente il tempo delle ipocrisie.

 

pH Pixabay senza royalty

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