“La cultura è ornamento nella buona sorte, rifugio nella cattiva.” — Aristotele
Qualche giorno fa, una timida ma significativa polemica ha attraversato i social attorno alla Scuola Holden. Il casus belli? Una studentessa ha pubblicamente denunciato il clima tossico che regnerebbe tra i corridoi della celebre scuola torinese: competizione sfrenata, adulazione sistemica e arrivismo disinibito, il tutto incorniciato da una retta di 10.000 euro l’anno. In cambio, due anni dopo, si promette poco più di una ricevuta firmata da Baricco, un bacio simbolico da Chiara Valerio e, per i più fortunati, la possibilità di pubblicare con la casa editrice del giovane Cattelan – quello che ha deciso di fare l’editore perché «leggere è anche divertente».
La replica della Holden è stata a suo modo sconcertante: un video promozionale con genitori degli studenti che si dichiaravano entusiasti dell’investimento. Parlano di «sorrisi negli occhi» dei figli, come se avessero pagato per un trattamento di recupero emozionale. Il video è stato prontamente rimosso: la community ha giudicato troppo alto il suo tasso di imbarazzo involontario.
Conosciamo bene la Holden. Alcuni nostri amici ci sono cascati. Hanno chiesto ai genitori ventimila euro per rimandare lo schiaffo della realtà, per guadagnare tempo sulle proprie allucinazioni letterarie. I genitori, da parte loro, si sono tolti un peso dalla coscienza: un biennio di maledettismo adolescenziale delegato a una struttura esterna, che funziona come un elegante ammortizzatore emotivo.
Abbiamo frequentato anche noi, da imbucati, alcune delle celebri feste a margine del Salone del Libro. Volevamo vedere da vicino il “tempio dello storytelling”. C’erano tutti: l’intera intellighenzia italiana, riunita in una sola stanza. E bisogna dirlo: i nostri scrittori sono i più scialbi d’Europa. Dai lineamenti incerti di Paolo di Paolo al look trasandato di Francesco Piccolo, passando per il baffetto porno-soft di Mario Desiati e l’assenza tragica di mento di Antonio Scurati, il panorama è desolante. Chi oggi desidererebbe diventare scrittore, se questo vuol dire finire vestiti come Paolo Cognetti, testimonial inconsapevole della sciatteria escursionistica?
Abbiamo nostalgia di Pasolini con i suoi addominali, di Moravia nei suoi gessati impeccabili, delle camicie di Arbasino, degli aviator di Flaiano. Almeno sembravano avere una visione.
Per fortuna esiste ancora Aurelio Picca. Stregone della parola, pugile della sintassi. Scrive come se ogni frase potesse essere l’ultima, come se ogni punto e virgola dovesse salvargli la vita. Leggetelo, tutto. Se non riuscite a trovare i suoi libri, cercate almeno le sue fotografie. Guardate quegli occhi da Volsco dei Colli Albani, le basette da vampiro, gli anelli da gemmologo – titolo che rivendica con fierezza. Veste di visone, indossa camicie esagerate, anfibi gotici. È l’ultimo scrittore che ha il coraggio di sembrare colpevole: di amare le donne, le belle macchine, l’alta sartoria, la brutalità dello sport. Tutto ciò che oggi viene nascosto sotto il tappeto del moralismo soft.
Nato a Velletri nel 1960, Aurelio Picca è romanziere, poeta e giornalista. Ha attraversato generi e stili con una scrittura rabbiosa e incandescente, animata da un lessico arcaico e una sintassi tagliente. Ha collaborato con testate come il Corriere della Sera e Il Messaggero; ha pubblicato con importanti case editrici tra cui Mondadori, Bompiani e Rizzoli. Tra i suoi titoli più rilevanti si segnalano Sacro cuor selvaggio (1997), L’esecuzione (1999, finalista al Premio Viareggio), Se la fortuna è nostra (2003), Addio (2012), Bellissima (2017), Il desiderio di essere come tutti (2019, premio Dessì) e Roma. L’ira, la grazia (2020), un potente ibrido tra autobiografia e affresco urbano. È un autore fuori asse, inclassificabile, e per questo necessario.
Lo incontrammo una volta nei pressi del lago di Nemi. Ci promettemmo un libro: I mulatti, viaggio psichedelico e feroce, uscito negli anni Novanta e oggi introvabile. Lo incontreremo ancora, tra i tigli e le ombre, e speriamo venga pubblicato.
Picca è bello, bellissimo – il più vivo dei viventi in un ambiente di autori morenti. Con lui vuoi copiarne l’outfit, abbracciare i suoi pensieri inammissibili. È il residuo di un’epoca in cui lo scrittore non doveva chiedere perdono per le proprie passioni. Oggi invece gli autori si mascherano di umiltà prefabbricata, di solidarietà da centro sociale, si travestono da guide civiche. Ti dicono come votare, come piangere, come amare, come parlare a tua madre. Preti laici, la cui scrittura sembra redatta dal consiglio condominiale. Incapaci di trasformare il loro trauma in una forma memorabile.
Leggiamo Aurelio Picca perché è l’unico ancora esposto: la parola non lo protegge, lo espone al giudizio universale, somma di tutte le prepotenze della vita.
Ed è proprio di una scuola di vita che avremmo bisogno, non di una scuola di scrittura.
A margine, aleggia un’altra minaccia: quella della sovrapproduzione culturale. Si è fatto credere che la cultura non possa saturarsi, che sia sempre poca, sempre necessaria. Ma è falso. Siamo già sommersi: mostre, festival, podcast, pubblicazioni, newsletter, romanzi, reading. Il cittadino medio non ha più tempo nemmeno per consumare i propri prodotti culturali, figurarsi quelli degli altri.
Il sistema è saturo. La produzione di segni eccede la capacità d’assorbimento. L’arte diventa effimera non per riflettere la fragilità della vita, ma per sopravvivere in un mercato che divora se stesso.
Così come nel 1929 l’eccesso produttivo mandò in crisi l’economia materiale, oggi assistiamo a un’economia culturale inflazionata, prossima al collasso. Si dice che la cultura non sia mai troppa: è un’illusione. E se nessuno interverrà per frenare questa bulimia di contenuti, sarà inevitabile una domenica nera anche per la cultura. Come allora si bruciava il caffè per salvare il valore, forse oggi si dovrà sacrificare parte della produzione culturale per ridare senso al gesto, al segno, alla parola.
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