di Monika Anna Perka 

Nel contesto italiano, le donne straniere si trovano a vivere una condizione complessa, in cui le possibilità di realizzazione personale, sociale e professionale si intrecciano con sfide giuridiche, culturali ed economiche di grande rilievo. Se da un lato l’ordinamento riconosce formalmente l’uguaglianza tra le persone, dall’altro la realtà evidenzia una serie di barriere sistemiche che rendono tale uguaglianza spesso inattuabile, soprattutto per chi si trova all’incrocio tra più fattori di vulnerabilità, come il genere e la condizione di straniera.

La Costituzione italiana, all’articolo 3, stabilisce il principio di uguaglianza formale e sostanziale, impegnando la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Tuttavia, le donne migranti, pur beneficiando sulla carta di tali garanzie, sperimentano quotidianamente forme di esclusione e discriminazione che ne limitano l’autonomia e la possibilità di partecipare attivamente alla vita del Paese.

Uno degli aspetti più rilevanti è quello legato alla discriminazione intersezionale, ovvero quel fenomeno per cui più fattori di svantaggio si sovrappongono e si rafforzano reciprocamente. Essere donna e straniera in Italia spesso significa avere minori opportunità di accesso al lavoro tutelato, all’istruzione, ai servizi sanitari e alla partecipazione civica. In molti casi, le donne migranti sono impiegate in lavori poco qualificati, nel settore domestico o della cura, con condizioni contrattuali precarie e un basso riconoscimento sociale. Anche quando possiedono titoli di studio e competenze professionali, spesso si trovano costrette ad accettare occupazioni che non valorizzano il loro bagaglio culturale e professionale, a causa del mancato riconoscimento dei titoli di studio esteri e della difficoltà di inserimento nei circuiti lavorativi formali.

L’accesso ai diritti è ulteriormente ostacolato da normative complesse e da una burocrazia spesso opaca. Il Testo Unico sull’Immigrazione (D.Lgs. 286/1998), pur prevedendo forme di tutela per chi risiede regolarmente in Italia, richiede requisiti rigidi per il rinnovo dei permessi di soggiorno e vincola talvolta i documenti alla sfera familiare o lavorativa, determinando una condizione di dipendenza che può avere ricadute drammatiche in caso di conflitto o violenza. In particolare, molte donne straniere, vittime di violenza domestica, esitano a denunciare per timore di perdere il permesso di soggiorno o di subire conseguenze sulla propria condizione familiare.

La Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia con la Legge 77/2013, rappresenta un passo importante verso la tutela delle donne contro ogni forma di violenza, comprese quelle fondate su appartenenza culturale o status migratorio. Tuttavia, l’effettività di tale strumento dipende dalla sua concreta implementazione, che risente della scarsità di risorse, della disomogeneità territoriale e della mancanza di formazione interculturale degli operatori pubblici.

Anche il sistema del welfare italiano, sebbene formalmente universale, presenta criticità significative nell’accessibilità per le donne straniere. La mancanza di informazioni chiare in più lingue, l’assenza di servizi di mediazione linguistica e culturale e il peso delle barriere culturali e logistiche rendono difficile il pieno godimento di diritti fondamentali come la salute, la maternità, l’istruzione per i figli e la protezione sociale. Inoltre, le politiche migratorie, spesso orientate da logiche emergenziali o securitarie, non tengono conto della specificità di genere, trascurando le esigenze e le potenzialità delle donne migranti come soggetti attivi del cambiamento sociale.

Non mancano però esperienze virtuose. In diverse città italiane, enti locali, associazioni del terzo settore e reti di donne migranti hanno attivato sportelli di ascolto, percorsi di formazione linguistica e professionale, progetti di empowerment femminile e iniziative di mediazione interculturale. Questi interventi hanno dimostrato come, attraverso un approccio partecipativo e intersezionale, sia possibile contrastare la marginalizzazione e promuovere l’autonomia delle donne migranti.

Tuttavia, tali esperienze restano troppo spesso isolate e non sistemiche. È necessario che le politiche pubbliche adottino un approccio strutturale, integrando la dimensione di genere nelle politiche migratorie, sociali e del lavoro. Occorre inoltre rafforzare i meccanismi di monitoraggio delle discriminazioni, investire in formazione interculturale per il personale pubblico, semplificare le procedure di accesso ai diritti e garantire una presenza stabile di mediazione culturale in tutti i servizi di base.

In conclusione, la realizzazione delle donne straniere nel contesto italiano non può essere affidata solo alla resilienza individuale o alla buona volontà delle singole amministrazioni locali. Richiede un impegno politico e culturale deciso, orientato alla piena attuazione del principio di uguaglianza sostanziale. Solo riconoscendo le donne migranti come portatrici di diritti, risorse e soggettività complesse, sarà possibile costruire una società realmente inclusiva e giusta, capace di valorizzare tutte le differenze come elementi di crescita collettiva.

Bibliografia essenziale
 Costituzione della Repubblica Italiana, art. 3 e art. 117.
 D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 – Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.
 Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), ratificata in Italia con L. 27 giugno 2013, n. 77.
 ISTAT, Condizione e caratteristiche della popolazione straniera residente, ultimi rapporti disponibili.
 Barabino, B., Donne migranti: genere, diritti e vulnerabilità, FrancoAngeli, 2021.
 UNHCR – Alto Commissariato ONU per i Rifugiati, La protezione internazionale in Italia, ultimi rapporti annuali.

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