di Carlo di Stanislao 

“Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.”
— George Orwell

A trent’anni dal massacro di Srebrenica, l’Europa e il mondo intero si trovano a fare i conti con una memoria che brucia ancora e con un presente che sembra volerla riscrivere o, peggio, assorbirla nel rumore di nuove stragi. Le piazze di Belgrado, in questi giorni, non sono semplicemente lo sfondo di una protesta politica contro Aleksandar Vučić, ma il luogo simbolico dove storia e attualità si confrontano, si scontrano, e si confondono.

Nel luglio del 1995, oltre 8.000 musulmani bosniaci vennero uccisi sistematicamente a Srebrenica da forze serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić. Fu il genocidio più terribile avvenuto in Europa dopo la Shoah. Le immagini dei soldati ONU che si allontanano, dei bambini con caramelle in mano e dei corpi gettati nelle fosse comuni sono diventate marchi a fuoco nella coscienza dell’umanità. Eppure, oggi, quelle stesse immagini sembrano essere inghiottite da una narrazione contemporanea che tende a diluire ogni responsabilità nell’ambiguità del termine “guerra”.

Nel 2015, Vučić osò presentarsi a Potočari per la commemorazione, ma fu costretto alla fuga da una folla inferocita. Oggi non ci proverà nemmeno: troppo vicina la decisione dell’ONU che ha istituito l’11 luglio come Giornata Internazionale della Memoria del Genocidio di Srebrenica, troppo chiara la condanna di ogni negazionismo o glorificazione dei carnefici. Ma mentre la Serbia ufficiale si dibatte tra la nostalgia per la Grande Serbia e il corteggiamento dell’Europa, la sua postura resta ambigua, pericolosa, corrosiva.

Il torbido attuale contesto globale amplifica questa ambiguità. La guerra della Russia contro l’Ucraina — come quella della Serbia contro la Bosnia musulmana negli anni Novanta — non è solo una questione geopolitica, ma anche ideologica, identitaria, quasi teologica. I paralleli non mancano: la propaganda che si nutre di revisionismo storico, le “missioni di liberazione” che nascondono operazioni di sterminio, i massacri derubricati a “incidenti di guerra” o addirittura attribuiti alle vittime stesse. Così come allora si accusavano i bosgnacchi di “autostragi”, oggi si cerca di relativizzare i crimini commessi a Bucha o a Mariupol.

Ma c’è un’altra faglia che attraversa il nostro tempo e si connette, in modo quasi doloroso, alla memoria di Srebrenica: quella di Gaza. Il termine “genocidio”, che dovrebbe essere usato con la massima cautela e gravità, viene oggi invocato e conteso, trasformato in arma semantica più che in categoria giuridica. Il dolore dei palestinesi di Gaza si sovrappone a quello dei bosgnacchi, non per somiglianza storica, ma per risonanza emotiva. Si griderà “Gaza!” anche nel silenzio del cimitero di Potočari, come se il grido del presente potesse, almeno per un attimo, abbracciare quello del passato.

Tuttavia, ogni strage è diversa, e ogni memoria merita la sua dignità. Srebrenica fu una carneficina “a mano nuda”, perpetrata da migliaia di uomini contro altri uomini, uno per uno, corpo per corpo. Gaza, pur nel suo orrore, appartiene a un’altra dimensione della violenza, mediata dalla tecnologia militare, dal controllo dei cieli, dai droni e dalle bombe intelligenti. Ma nel cuore delle madri, dei figli, dei sopravvissuti, le differenze si dissolvono. Resta solo l’assenza, resta la domanda senza risposta: perché noi? Perché di nuovo?

Il rischio più grande, oggi, è che la memoria diventi selettiva. Che si pianga solo ciò che è utile piangere, che si condanni solo ciò che conviene condannare. Srebrenica rischia di essere ridotta a una commemorazione rituale, svuotata dal confronto col presente. E Gaza, al contrario, rischia di diventare un simbolo talmente assoluto da oscurare altri dolori, altre vittime, altri genocidi. In questo gioco pericoloso, la storia perde, e con essa l’umanità.

Nel mondo attuale, in cui molti dei protagonisti della politica globale — da Mosca a Belgrado, da Budapest a Ramallah — sono legati da una rete di connivenze, impunità e rivendicazioni identitarie, la lezione di Srebrenica resta un faro fioco ma necessario. Un monito inciso sulla pelle dell’Europa e del diritto internazionale: non tutto ciò che accade in guerra è “colpa di tutti”. Ci sono carnefici. Ci sono vittime. E ci sono verità che non si possono negoziare.

Nel luglio del 2025, Srebrenica non sarà solo un anniversario. Sarà una prova. Per la memoria, per la giustizia, per la nostra capacità di riconoscere il male anche quando cambia volto, anche quando parla un’altra lingua, anche quando si traveste da ragione di Stato. E sarà una sfida: comprendere che ogni ricorrenza non è mai soltanto un guardare indietro, ma un guardarsi dentro.

Perché la storia non è mai passata. È sempre, tragicamente, presente.

 

pH Pixabay senza royalty

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