“Il potere non corrompe. Il potere rivela.” — Robert Caro
Dopo anni di indagini, udienze fiume e un crescendo di tensione politica e istituzionale, il processo a Benjamin Netanyahu, attuale Primo Ministro di Israele, è entrato in una nuova fase: un ennesimo rinvio, giustificato ufficialmente con la necessità di gestire una crisi di sicurezza nazionale. Ma dietro questa apparente necessità si intravede una strategia ben più articolata, che mira a trasformare ogni passaggio giudiziario in un’opportunità politica, ogni fase processuale in un messaggio per l’elettorato.
Netanyahu, ormai da anni al centro del dibattito politico israeliano, è contemporaneamente un leader popolare e una figura altamente divisiva, tanto sul piano interno quanto internazionale. La sua figura polarizza: per molti è il difensore di Israele nei momenti più bui, per altri è il simbolo di un potere che ha perso il senso dei limiti istituzionali. Con il processo rallentato, le tensioni in Medio Oriente accese, e le elezioni potenzialmente dietro l’angolo, Israele vive una fase critica, dove giustizia, politica e sicurezza si intrecciano pericolosamente.
Le accuse: corruzione e intrecci di potere
Il cuore del problema giudiziario di Netanyahu ruota attorno a tre casi penali distinti, noti come Caso 1000, Caso 2000 e Caso 4000. Questi numeri, dietro la loro freddezza burocratica, racchiudono una narrazione esplosiva che tocca il rapporto tra potere politico, media e affari.
- Caso 1000: Netanyahu e sua moglie Sara sono accusati di aver ricevuto regali di valore spropositato da parte di miliardari internazionali, in particolare il produttore Arnon Milchan. Si parla di champagne, sigari, gioielli, soggiorni di lusso. In cambio, secondo l’accusa, Netanyahu avrebbe esercitato pressioni per ottenere agevolazioni fiscali e visti per gli stessi benefattori.
- Caso 2000: Il caso coinvolge il quotidiano Yedioth Ahronoth, uno dei principali d’Israele. In incontri privati, Netanyahu avrebbe negoziato con l’editore Arnon Mozes un accordo che prevedeva una copertura stampa favorevole in cambio dell’approvazione di leggi contro Israel Hayom, giornale rivale gratuito e filo-governativo.
- Caso 4000: Il più grave. Netanyahu, nella sua veste di Ministro delle Comunicazioni (carica che ha ricoperto oltre a quella di Primo Ministro), è accusato di aver favorito la compagnia Bezeq con decisioni normative vantaggiose. In cambio, il portale d’informazione Walla! — di proprietà dello stesso gruppo — avrebbe offerto una linea editoriale docile e allineata.
In tutti e tre i casi, le accuse si basano su testimonianze, intercettazioni e documenti, e sono state formulate dopo anni di inchieste. Eppure, Netanyahu ha sempre respinto ogni addebito, sostenendo che le indagini sono politicizzate, mosse da “giudici di sinistra” e da “una stampa ostile” che tenta di far fuori l’unico leader in grado di garantire la sicurezza di Israele.
Il processo come teatro politico
Se da un lato la giustizia cerca di affermare la propria autonomia, dall’altro il potere esecutivo mostra una chiara tendenza a strumentalizzare il tempo processuale a fini elettorali e strategici. Il recente rinvio, formalmente giustificato da “questioni di sicurezza nazionale” a seguito dello scontro con l’Iran, rientra perfettamente in questa logica.
I legali di Netanyahu hanno chiesto, e ottenuto in parte, una riduzione delle udienze, adducendo come motivo l’intensificarsi degli impegni diplomatici e militari. Ma il tribunale ha respinto la richiesta di sospensione totale, stabilendo un calendario processuale meno intenso ma ancora operativo. In questo modo, il primo ministro può continuare a presentarsi come vittima di una giustizia invasiva, senza tuttavia interrompere del tutto il procedimento — una posizione ideale per mantenere compatta la propria base elettorale.
Netanyahu non è nuovo a questa tattica: ha già usato le crisi internazionali come strumento per congelare l’opinione pubblica, evocando uno stato d’eccezione permanente in cui solo la sua guida sarebbe garanzia di sicurezza. La guerra, la minaccia esterna, il terrore sono divenuti elementi della sua grammatica politica quotidiana.
Il contesto politico: fragilità e calcolo
Il governo attuale, nato da un’alleanza tra partiti di destra, ultraortodossi e nazionalisti religiosi, non gode di una base solida. Le tensioni interne sono continue, così come le proteste esterne: la società israeliana è attraversata da manifestazioni settimanali, crisi economiche e tensioni sociali, in parte legate anche alla riforma della giustizia voluta proprio da Netanyahu.
L’opposizione guidata da Yair Lapid, pur essendo variegata, ha trovato coesione nella difesa della democrazia costituzionale e nella battaglia contro quella che viene vista come una deriva autoritaria. Anche figure più moderate come Benny Gantz godono di crescente popolarità, soprattutto tra l’elettorato centrista e nelle forze armate.
Alla luce di questo scenario, le elezioni anticipate appaiono sempre più probabili, con molti osservatori che indicano la seconda metà del 2025 come momento cruciale. Netanyahu potrebbe decidere di forzare la mano se dovesse ottenere successi simbolici sul fronte internazionale — per esempio, una nuova normalizzazione diplomatica con paesi arabi o un cessate il fuoco a Gaza che lo rafforzi come leader in grado di “portare pace dalla forza”.
Elezioni e futuro: chi vincerà?
La domanda che aleggia da mesi a Gerusalemme è semplice quanto inquietante: può un premier sotto processo per corruzione vincere ancora le elezioni? La risposta, in Israele, è sì. Netanyahu ha già dimostrato che non solo può sopravvivere alle accuse, ma può anche usarle come carburante politico.
Tuttavia, la situazione è diversa rispetto al passato. L’usura del potere è reale. Le famiglie israeliane soffrono per l’inflazione, per il caro vita, per la crescente insicurezza nei centri urbani e nei territori. I riservisti dell’esercito protestano apertamente contro le scelte del governo. La polarizzazione ha raggiunto livelli mai visti, e non è detto che la paura — arma finora vincente — basti ancora a garantire il successo.
Conclusione: il rischio di una democrazia congelata
Il processo Netanyahu non è un semplice fatto giudiziario. È lo specchio di una trasformazione profonda della politica israeliana, in cui la fiducia nelle istituzioni si sta lentamente erodendo e la giustizia si trova costretta a camminare sul filo dell’equilibrio costituzionale.
Nel rinviare le udienze, non si rinvia soltanto un verdetto legale, ma si sospende simbolicamente anche la possibilità di un chiarimento nazionale. Netanyahu è il protagonista di un’epoca in cui il potere non è più sottoposto al diritto, ma tenta di riscriverne le regole. In questo contesto, il tempo diventa la risorsa più preziosa: per la giustizia, che rischia di perdere legittimità; per la politica, che gioca col fuoco; e per un popolo, che si ritrova ancora una volta davanti al bivio tra democrazia e personalismo — e della guerra permanente.
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