di Franco Luceri 

Dio ha donato agli esseri umani il cervello, non solo come strumento di sopravvivenza, ma come leva per migliorare ogni mestiere, per perfezionare gesti e invenzioni, per rendere la vita più utile e produttiva. Tuttavia, sembra quasi che lo stesso Dio — o suo figlio Gesù, figlio di un umile falegname — abbia stabilito un limite invisibile: chi osa spingersi oltre, utilizzando l’intelligenza e la scienza per trarne un profitto puramente individuale, è destinato a fallire, come se fosse colpito da una maledizione silenziosa.

Sorge allora un dubbio: Dio nutre forse un misterioso pregiudizio a favore degli artigiani e contro gli intellettuali? Oppure siamo noi, moderni “sapienti”, a non aver compreso il vero scopo dell’intelligenza?

Forse la spiegazione è più sottile e drammatica insieme. Gli esseri umani hanno sempre potuto guadagnare individualmente grazie al lavoro manuale: un contadino che ara meglio, un falegname che scolpisce più finemente, un fabbro che forgia con maggior maestria. Il corpo era strumento di autonomia e sostentamento, e il mestiere, perfezionato di generazione in generazione, ha custodito la dignità della persona.

Al contrario, il lavoro intellettuale — la scienza, il pensiero, la riflessione critica — non può essere usato per un mero guadagno personale senza rischiare di stravolgere l’ordine comune. La mente è un dono da impiegare per il bene collettivo, per la giustizia sociale, per il progresso condiviso. Laddove l’intelletto viene piegato a un egoismo sterile, non genera ricchezza duratura ma soltanto disuguaglianze, alienazione e distruzione.

L’umanità si è salvata per millenni perché, nonostante le sue tensioni, ha continuato a fondarsi su mestieri concreti, radicati nella terra e nella comunità. Il falegname, il contadino, il muratore: figure che incarnavano una conoscenza pratica che serviva prima di tutto al villaggio, alla famiglia, al popolo. Oggi invece, invasi da eserciti di professionisti e “esperti” specializzati, scientificamente impeccabili ma spesso disancorati dalla vita reale, rischiamo di estinguerci, travolti da una conoscenza che ha perso la sua funzione etica e comunitaria.

Il vero problema non è il progresso in sé, né la scienza, ma l’illusione che l’intelligenza possa essere uno strumento di dominio individuale, slegato dal destino collettivo.

Ecco perché oggi la specie umana rischia più che mai: abbiamo smarrito il senso del limite e il principio della condivisione. Abbiamo dimenticato che la mente, se non resta al servizio della comunità, diventa la peggiore delle armi

 

pH Pixabay senza royalty

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